«Non c’è niente di peggio del non essere amati e desiderati, tra la propria gente, nella propria terra. »
Forse la sfida più grande è costituita dalle etichette. Non voglio essere considerata una brava scrittrice nera sudafricana, come già mi sono vista etichettare un paio di volte. Voglio essere una brava scrittrice, punto e basta.
Zukiswa Wanner è una scrittrice sudafricana. Vive attualmente a Nairobi, in Kenya.
È nata a Lusaka, Zambia, da padre sudafricano e madre zimbabwiana il 30 luglio 1976. La stessa settimana in cui in Sudafrica, a Soweto, una delle township di Johannesburg, la popolazione insorgeva per protestare contro la decisione del governo sudafricano di sostituire l’afrikaans all’inglese nelle scuole. Nel sobborgo di Orlando, la polizia fece fuoco su un corteo di diecimila studenti e nei dieci giorni di violenti scontri che seguirono furono uccise diverse centinaia di persone. A detta della madre, essere nata sotto il segno della rivolta, deve aver influito sul carattere ribelle e indomito della scrittrice.
I genitori di Zukiswa Wanner furono per anni banditi dai rispettivi paesi d’origine perché entrambi attivisti politici: il padre, ex pilota dell’aeronautica militare, faceva parte dell’African National Congress, Umkhonto we Sizwe (“Lancia della nazione”), e la madre era membro della Zimbabwe African People’s Union (Zapu). Dopo che l’indipendenza dello Zimbabwe fu riconosciuta a livello internazionale (1980), la famiglia Wanner vi si trasferì. Ma il paese in cui Zukiswa avrebbe voluto vivere, quello a cui si sentiva di appartenere di più, era il Sudafrica.
Quando il 2 febbraio 1990, nel suo discorso di apertura del Parlamento, il presidente Frederik Willem de Klerk annunciò la legalizzazione dell’ANC (African National Congress), del PAC (Pan Africanist Congress) e del SACP (South African Communist Party), ordinando il rilascio di molti prigionieri politici e avviando così un processo che avrebbe portato alla fine dell’apartheid e al governo del National Party, e quando, il 10 febbraio, lo stesso presidente proclamò la liberazione del leader storico dell’ANC, Nelson Mandela, dopo 26 anni di detenzione, Zukiswa Wanner, allora ragazza di quattordici anni, comprese, trepidante e impaziente, che era finalmente giunto il momento di affrontare quell’eredità mancata, tanto a lungo anelata: «Potevo finalmente, per la prima volta in vita mia, vivere nell’unica terra a cui sentivo di appartenere». E l’impatto con la capitale sudafricana fu esplosivo per l’adolescente Zukiswa: «Johannesburg mi tolse il fiato. La città era enorme. Mi ricordava un sacco Londra, che avevo visitato all’età di dodici anni. Ero stupefatta, senza parole. Andai a vivere col cugino di mio padre e la sua famiglia. Zio Velile, zia Tembi e i loro figli divennero la famiglia allargata che avevo sempre desiderato di avere».
Nel 1994, quando in Sud Africa ci furono le prime elezioni democratiche, Zukiswa aveva quasi diciotto anni: «mai come allora ho desiderato con tutta me stessa di essere più grande. Guardare il paese in fila ai seggi per votare era come guardare, da dietro il vetro della finestra, la meravigliosa festa che si svolge all’interno di una casa, senza riuscire a entrare. Non c’era momento più giusto per essere sudafricani, ma non mi sentivo ancora radicata, non del tutto».
Nel decennio successivo alle elezioni, Zukiswa divenne una vera e propria “afropolitan”, studiando Giornalismo alla Hawaii Pacific University di Honolulu, vivendo in Inghilterra, viaggiando in tutta Europa.
Nel 2003, in seguito alla morte del padre, Zukiswa Wanner tornò a casa, dopo aver trascorso sette anni all’estero: «Non ci sarebbe stato niente di strano se, figlia unica e con mia madre in Australia, dopo il funerale avessi fatto armi e bagagli e non fossi mai più ritornata. Invece vidi un paese di speranza, dove ti potevi permettere di essere un sognatore e dove quei sogni avevi l’opportunità di realizzarli». Un momento epifanico, in cui l’autrice si rese conto con netta chiarezza, in questo suo ennesimo ritorno, «che la vera casa è dove si trova il cuore».
Pur non avendo alcuna prospettiva di lavoro immediata, decise di rendere più definitivo questo suo ritorno nel Sud Africa di Thabo Mbeki: «trovai un paese dove essere africani era qualcosa di positivo, di buono, dove potevo essere esattamente ciò che volevo, dove non ero una rappresentante della mia razza o del mio continente ma una persona libera di essere se stessa, chiunque volesse essere. Provai finalmente la pace del ritorno a casa».
Tornando “a casa,” Zukiswa trovò un Sudafrica in pieno fervore, a livello culturale e politico. Scoprì di essere finalmente libera, nel paese del suo cuore, di scrivere ciò che voleva e di criticare la leadership politica, senza essere per questo meno degna di rispetto. Così attinse a piene mani alle numerose, coloratissime, storie che il Sudafrica aveva da raccontarle, storie provenienti da culture altrettanto numerose.
I mesi che seguirono il suo ritorno in Sudafrica, Wanner li passò a cercare un impiego. Iniziò lavorando come volontaria in una comunità di Soweto che si occupava di orfani di malati di Aids e di persone affette da HIV e Aids. La sua “paga”, a quei tempi, consisteva in una razione di cibo a base di fagioli, mealie rice (una specie di cornflakes usati al posto del riso), tè e zucchero: «e tuttavia mi sento di affermare, in tutta onestà, di non aver mai lavorato con un gruppo tanto serio e impegnato. Molti dei volontari erano neodiplomati disoccupati, ma credevano in questo paese, abbastanza da volerlo far funzionare, a dispetto dell’alto tasso di disagio sociale e di disoccupazione».
Zukiswa Wanner, oggi “scrittrice a tempo pieno ”, come lei stessa si è definita, è “a writer, a mother, an African, and a woman – in that order”.
Wanner è autrice di tre romanzi (con un quarto in uscita) The Madams (2006), tra i finalisti del South African Literary Award del 2007, nella categoria “K Sello Duiker Literary Memorial Award”, Behind Every Successful Man (2008) e Men of the South (2010), nel 2011 tra i finalisti del prestigioso Best Book Commonwealth Prize African Region nella categoria “Africa Best Book”, dello Herman Charles Bosman Award, dello University of Johannesburg Creative Writing Prize e nella rosa dei candidati del più importante premio letterario americano The Sunday Times Fiction Prize.
The Madams, suo romanzo d’esordio, è la storia di una vita perfetta a guardarsi. In un mondo perfetto e capovolto. Eppure realistico e reale, nel Sudafrica del ventunesimo secolo. Il paradosso è doppio, triplo, di più: il nero che fa il bianco e viceversa; la donna fa l’uomo e viceversa; anche servi e padroni si scambiano il ruolo. Thandi, la protagonista, è una giovane donna nera, benestante e realizzata. Un marito, un figlio, due buone amiche, un buon lavoro: un elogio della normalità urbana e globalizzata. La protagonista è il prototipo sperimentale della super-donna del nuovo ceto medio dell’Africa emergente. Brillante operatrice turistica, moglie perfetta e mamma entusiasta, Thandi prende gusto nel giocare a “fare la signora” e per accedere al livello successivo decide di regalarsi l’accessorio borghese più à la page in Sudafrica, soprattutto tra i nuovi ricchi: una domestica, il sigillo definitivo alla sua personale scalata sociale, da donna (womanity) a signora (madamhood). E la madamità è completa solo se sovverte anche la Storia: la domestica sarà di pelle bianca, poiché nessuna superiorità dovrà mai più essere esercitata su una “sorella” nera. Le vicende narrate si svolgono nella cornice geografica, sociale e morale di una Johannesburg in costante metamorfosi, apparentemente lontana anni-luce dal lungo inverno dell’apartheid, ma dove in realtà la separazione persiste sottopelle – è il caso di dire – e diventa la madre di tutte le discriminazioni. Un cancro del cervello e del cuore di ciascun sudafricano, nero o bianco.
The Madams è un romanzo “sfrenatamente provocatorio”, come lo definisce lo stesso sottotitolo, pur mantenendosi fedele ai canoni della commedia classica, in cui l’effetto comico nasce dalla contrapposizione di figure-tipo complementari (moglie/marito, servo/padrone, bianco/nero) ma con ruoli totalmente ribaltati. Il microcosmo di Thandi ha una funzione massimalista di analisi sociale ma, nel testo, le rappresentazioni tradizionali vengono ribaltate, dissacrate, rinnegate e talvolta redente. L’amore, l’amicizia, la famiglia si sgretolano sotto la pressione irreverente e ironica della voce della protagonista, precipitando l’uno sull’altro in una specie di effetto-domino per poi riapparire trasfigurati in nuovi traballanti equilibri, che riflettono il e sul Sudafrica post-apartheid.
Il libro sembra fare il verso al South African Chick-lit, versione umoristica e post-femminista del romanzo rosa di genere, trasformandolo in letteratura postcoloniale. Zukiswa Wanner maneggia i cliché della letteratura di consumo, come Tarantino fa nel cinema con quelli del B-movie. Traspare l’ambizione di trasfigurare il pop in pop-art, la commedia in logos politico ed esistenziale.
Anche Behind every successful woman è la storia di una vita perfetta, almeno all’apparenza. La protagonista Nobantu ha tutto ciò che una donna possa desiderare dalla vita: un brillante uomo d’affari come marito, due bimbi pestiferi ma adorabili e due amiche del cuore insostituibili. Eppure, il giorno del suo trentacinquesimo compleanno, un giorno “all’apparenza perfetto”, Nobantu ha un’illuminazione improvvisa, drammatica: dove sono andate a finire le sue ambizioni? E la sua carriera? Che ne è stato di Nobantu? Men of the South, terzo e ultimo romanzo della Wanner, è la storia, articolata per vasi comunicanti, di tre uomini, molto diversi ma complementari, nel Sudafrica contemporaneo: Mfundo, Mzilikazi e Tinaye. Raccontata in prima persona dalle voci dei protagonisti (questa volta maschili), trova il suo trait d’union narrativo in una donna legata a tutti e tre e che tutti e tre fonde insieme: Slindile. Seppur rese secondo uno schema di successione quasi temporale, le tre vicende compongono, nella ricostruzione del lettore, una specie di narrazione corale, quasi in sincrono. Ciascuno col suo mondo, ciascuno con il suo grande problema, ciascuno con la sua specifica relazione con Slindile, i tre uomini edificano un’unica storia, pur occupando ognuno una porzione precisa di romanzo. Mfundo è un talentuoso trombettista jazz che, nell’intento di proteggere la sua donna, Slindile, viene alle mani con un pezzo grosso del panorama discografico sudafricano, giocandosi così ogni possibilità di emergere nel suo paese. Mzi è omosessuale e cerca di nasconderlo al mondo, soprattutto alla sua famiglia, vestendo maldestramente il ruolo del macho e giungendo al punto di sposarsi e di generare un figlio pur di dar prova della sua virilità. Tinaye, una laurea e un master a Oxford, dallo Zimbabwe arriva a Johannesburg in cerca di fortuna. Quello che trova è un lavoro sottopagato a cui non può rinunciare per mantenere il permesso di soggiorno, oltre ai pregiudizi di chi lo vede come uno straniero. La storia è narrata in prima persona dai tre uomini del sud (a ognuno una parte della narrazione), in una sorta di diario romanzato tripartito. Nella parte finale del romanzo, Mfundo, Mzi e Tinaye rientrano in scena, per la prima e ultima volta tutti insieme, riuniti attorno al tavolo di un bar dalla fatale Slindile che, a un tratto, si volatilizza per lasciare i tre uomini soli a ricomporre, a loro insaputa, la quintessenza dell’uomo ideale, la summa dell’esperienza di Slindile con gli uomini africani: l’uomo del sud. È la scena madre del libro, che lascia però presto il posto allo scorrere ordinario del tempo, in cui le cose riprendono il loro ordine secondo la gerarchia del socialmente prestabilito e non secondo l’alchimia creativa dei sentimenti e delle relazioni. Ciò che accomuna i tre “uomini del sud” è il loro essere al margine, il loro difficile collocarsi in una qualche posizione riconosciuta e condivisa, il loro sfuggire a una definizione precisa. Tutti e tre inseguono la propria identità, e sovente vi inciampano, cercando di affermarla, di scoprirla, di redimerla. E in questa corsa all’affermazione di sé, al di là di ogni pregiudizio, di ogni presunta normalità, ognuno dei tre perde qualcosa. O meglio, sacrifica qualcosa. Quel qualcosa è quasi sempre l’amore. All’interno dei suoi tre romanzi, la comunicazione di Wanner è sempre frontale, istantanea. Come in un personale reportage, i protagonisti si raccontano in presa diretta. La prosa è pret a porter, fresca, paratattica, quasi parlata. Arricchita dalla presenza delle lingue africane più diffuse, fra cui lo xhosa e l’afrikaans, con i loro slang, e di gerghi ibridi degli strati più bassi della società, come lo tsotsitaal, parlato nelle zone urbane della provincia di Gauteng, soprattutto a Soweto e Johannesburg, e nato dall’incrocio fra zulu, sesto, setswana, inglese e afrikaans.
Zukiswa Wanner, oltre ai romanzi, ha anche scritto due libri per l’infanzia, Jama Loves Bananas e Refilwe , usciti a ottobre 2012, e diversi saggi, tra cui The Politics of Race, Class, and Identity in Education (http://www.guernicamag.com/daily/zukiswa_wanner_south_africa/) e il saggio introduttivo del 2011, Being a Woman in South Africa , uscito per il Mail & Guardian’s book of South African Women (http://bow2011.mg.co.za/essays/on-being-a-woman-in-south-africa/) e collabora con molte riviste tra cui «Observer», «Forbes Africa», «New Statesman», «O», «», «The Guardian», «Africa Review», «Mail & Guardian», «Marie Claire», «Real», «Juice», «Afropolitan», «OpenSpace», «Wordsetc», «Baobab», «Sunday Independent», «City Press», «Sunday Times».Wanner è poi autrice, in collaborazione con il pluripremiato fotografo sudafricano Alf Kumalo, di 8115: A Prisoner’s Home (2010), una biografia di Nelson Mandela che ha come set la prima abitazione dell’ex presidente sudafricano all’8115 di Vilakazi Street, e, in collaborazione con la fotografa francese Amélie Debray e altri autori, di L’Esprit du Sport (2010).
Ha inoltre curato, insieme alla scrittrice indiana Rohini Chowdhury, l’edizione di Behind The Shadows. Contemporary Stories from Africa and Asia, una raccolta di racconti di scrittrici africane e asiatiche uscita a settembre 2012.
Wanner è infine fra i 66 scrittori (tra cui Wole Soyinka, Jeanette Winterson e l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams) di Sixty-Six Books: 21st-century writers speak to the King James Bible, una riscrittura della King James Bible, pensata per il teatro, ad opera di 66 autori contemporanei.
È fondatrice di ReadSA, campagna organizzata da vari scrittori volta a sensibilizzare i sudafricani alla lettura di autori africani.
È stata di recente ospite del British Council all’interno del suo terzo Market Focus Cultural Programme “One Nation, Many Voices” al London Book Fair.
Partecipa regolarmente ai più importanti eventi letterari sudafricani, come il “Time of the Writer”, il “Franschhoek Literary Festival” e il “Cape Town Book Fair” e ha spesso partecipato anche a festival letterari in Inghilterra (“London Book Fair”), Danimarca, Germania (“BIGSAS Festival of African Literature”), Zimbabwe (“Intwasa Arts Festival”), Algeria (“Algiers Book Fair”), Norvegia e Ghana (“Pan African Literary Festival”). Tiene regolarmente workshop per giovani scrittori in Zimbabwe, Sud Africa, Danimarca, Germania e Kenya occidentale. Ad aver formato la sua personalità di scrittrice, invece, sono stati soprattutto autori africani quali Lewis Nkosi, autore zimbabwiano che la incoraggiò a scrivere, Shimmer Chinodya, Wole Soyinka, Lauren Beukes, Nadine Gordimer e Margaret Ogolla, e i più classici George Orwell e Doris Lessing.