Architetto e scrittrice palestinese, dice di sé di avere tre vite: una da architetto, la seconda da attivista impegnata nel sociale e la terza, «iniziata per puro caso», da scrittrice.
Cresciuta in Giordania ad Amman – dove la sua famiglia, dalla Palestina, aveva trovato rifugio dopo il 1948 – ha studiato architettura in Libano, presso l’American University di Beirut, quindi all’University of Michigan e all’Università di Edimburgo.
Dal 1981 è tornata a vivere a Ramallah. Ha insegnato architettura alla Jordan e alla Birzeit University.
A Ramallah ha fondato, nel 1991, il Riwaq Centre for Architectural Conservation, di cui è stata per diversi anni direttrice. Riwaq (in arabo “porticato” o “arcata”, elemento architettonico in grado di fornire riparo, dal sole o dalla pioggia) si dedica a tutelare e riportare in vita edifici e centri storici in villaggi e città dei Territori occupati e di Gaza. Lo fa coinvolgendo i giovani e le comunità locali, oltre che promuovendo diverse attività di valorizzazione del patrimonio culturale palestinese.
Per il Centro, Suad attualmente segue principalmente gli aspetti della raccolta fondi e dello sviluppo di relazioni e contatti.
In merito al prezioso lavoro di Riwaq – vincitore di diversi premi per l’architettura, tra cui nel 2013 il prestigioso Aga Khan Award per il restauro e la rivitalizzazione del centro storico di Birzeit – nel corso di un’intervista con chi scrive ha affermato:
“Considerando le risorse limitate del pianeta, il riscaldamento globale e l’urgente necessità di riciclo, la conservazione e il riuso degli edifici storici sembrano essere l’unica cosa saggia da fare. La Palestina non è un Paese ricco, con giacimenti di petrolio o gas. La sua ricchezza è la storia e il patrimonio culturale. La salute, l’istruzione e la cultura (incluso il patrimonio architettonico) sono i settori in cui la maggior parte del budget di un Paese dovrebbe essere speso, se vogliamo un mondo giusto e sano“.
Membro, dal 1991 al 1993, di una delegazione palestinese per la pace a Washington DC, è impegnata in alcune delle più importanti iniziative di pace promosse in particolare da donne palestinesi e israeliane.
Nell’ambito della sua “terza vita”, è autrice di numerosi testi di architettura, su diversi aspetti dell’architettura palestinese, e di alcuni fortunati libri, tradotti in vari Paesi. Celebre in Italia è Sharon e mia suocera. Se questa è vita, tradotto e pubblicato, in prima edizione, nel 2003.
Scritto grazie ai diari tenuti dall’autrice tra il 2001 e il 2002, durante l’occupazione di Ramallah e il coprifuoco imposti dall’esercito israeliano, racconta – con molta ironia – il conflitto da una prospettiva inedita: quella della convivenza forzata tra le mura di casa con la petulante, inarrestabile, suocera. Il libro ha vinto il Premio Viareggio nel 2004.
Tra i libri successivi, tradotti in italiano, ricordiamo: Se questa è vita (2005), Niente sesso in città (2007), Murad Murad (2009), Golda ha dormito qui (2013), Damasco (2016), Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea (2020), romanzo dedicato a una promessa d’amore e ambientato a Jaffa, la città del padre di Suad.
“Questo romanzo è un omaggio a mio padre che è morto in diaspora nella speranza di poter tornare nella sua città un giorno, ma non ha mai potuto farlo“,
ha dichiarato l’autrice.
Suad Amiry vive a Ramallah con il marito, l’accademico e attivista politico Salim Tamari, che l’ha sempre supportata nel suo lavoro e nelle sue battaglie.