Nella famiglia di artisti, ingegneri e intellettuali torinesi in cui è nata, dopo i fratelli maggiori Anna e Gino e insieme alla gemella Paola che diventerà una pittrice affermata, le donne vengono incoraggiate a coltivare i propri talenti, a condizione di non farne una carriera. Rita però convince il padre a lasciarla studiare. Dopo la maturità è incerta se scrivere «una saga italiana à la Lagerlof» – scrittrice ammirata da Anna – o dedicarsi alla medicina. Opterà per la seconda ipotesi; insieme alla cugina Eugenia Sacerdote e a Renato Dulbecco, segue le lezioni di Giuseppe Levi e, dalla assistente di lui, Hertha Meyer, in fuga dalla Germania nazista, impara un nuovo metodo per coltivare cellule in vitro.
Nel 1936 si laurea con 110 e lode e decide di specializzarsi in neurologia e psichiatria. Due anni dopo, le leggi razziali (1938) escludono gli ebrei dagli incarichi pubblici: Giuseppe Levi trova posto all’università di Liegi, lei al dipartimento di neurologia dell’università di Bruxelles. Prima dell’arrivo delle truppe naziste in Belgio rientra a Torino, improvvisa un laboratorio in camera sua, e riprende gli studi sulla crescita dei nervi che si diramano dal midollo spinale verso gli arti durante lo sviluppo dell’embrione. L’idea le viene da un esperimento che Viktor Hamburger ha compiuto all’università Washington di Saint Louis, Missouri: tagliati gli arti embrionali di pollo l’amputazione riduceva la dimensione dei gangli, le strutture nelle quali i nervi si raggruppano prima di procedere verso la loro destinazione. Hamburger riconduceva questa atrofia alla mancanza di un “fattore induttivo”, un richiamo chimico prodotto dal tessuto da innervare, necessario a trasformare le cellule provenienti dal midollo in neuroni veri e propri.
Giuseppe Levi scappa dal Belgio e viene ad “assistere” la propria allieva anche nella casa dell’Astigiano dove la famiglia si trasferisce per sfuggire ai bombardamenti sulla città. Dopo l’8 settembre 1943 Gino Levi – il fratello architetto – riesce a portare tutti a Firenze dove Rita viene ospitata, clandestinamente, da amici.
Nel 1944 diventa medico delle forze alleate e viene distaccata nel campo dei rifugiati del Nord Italia, un’esperienza molto dura che ricorderà spesso, insieme alle doti del proprio “sistema immunitario inossidabile”: nel campo le epidemie di tifo si susseguono, ma lei non si ammala.
Appena liberato il Piemonte riprende il lavoro con Giuseppe Levi, reintegrato nell’università, e comincia a isolare neuroni dagli embrioni di pollo e a coltivarli. Scrive dei suoi progressi a Viktor Hamburger che nel 1947 la invita all’università Washington. Renato Dulbecco ricorda “The Queen” – così la chiamavano per l’eleganza e l’attitudine: «minuta, ma passo svelto, schiena dritta, mento alto e gli occhi verdi che non avevano paura di nessuno». La Regina si reca presso Hertha Meyer, all’Istituto di biofisica di Rio de Janeiro, per impratichirsi di nuove tecniche sperimentali. Tra il 1951 e il 1952, a Saint Louis e contro il parere di Giuseppe Levi, convinto della mancanza di orizzonti di quella ricerca, trapianta tumori prelevati da topi nel cervello di embrioni di pollo, e ne deduce che una proteina stimola la crescita e la differenziazione delle cellule del sistema nervoso simpatico e sensoriale. Con il suo dottorando Stanley Cohen identifica la stessa proteina nella saliva di topo e nel veleno di serpente, concludendone che l’origine è da riferire alle ghiandole esocrine. Sono queste, e non una programmazione iscritta nei geni, a far sintetizzare alle cellule nervose la proteina della crescita. La scoperta del fattore di crescita nervoso (NGF, Nerve Growth Factor) le vale nel 1968 l’elezione presso l’Accademia delle scienze americana e nel 1986, con Cohen, il premio Lasker e il premio Nobel per la medicina. Una scoperta faticosa e determinante, che avvia i biologi verso una nuova strada. Oggi si conoscono almeno trenta fattori di crescita diversi, gli elementi essenziali del linguaggio con il quale le cellule di tessuti diversi comunicano fra loro, e non c’è aspetto della biologia che non ne sia influenzato.
Professore associato, poi titolare all’università Washington dove rimane fino alla pensione nel 1977, Rita fonda nel 1961 a Roma un gruppo di lavoro al Consiglio Nazionale delle Ricerche, nel quale dirige il Laboratorio di biologia cellulare dal 1969 al 1979 e dove, raggiunti i limiti d’età, resta da “Superesperto” fino al 1989, frequentandolo comunque fino al 1997.
Femminista, progressista, battagliera, dopo il Nobel diventa celebre anche in Italia [1], e un’icona di molte battaglie civili e di un pensiero libero che nel contesto italiano suona persino rivoluzionario: «Non mi sono sposata perché non avevo tempo. Gli uomini mi piacciono, ma se non posso lavorarci insieme, mi annoio».
Scrive libri di ricordi, decine di prefazioni, lettere alle autorità e persino una canzone per il Festival di Sanremo.
Milita contro le mine anti-uomo e la fame nel mondo, sostiene le necessità della ricerca; colleziona premi e lauree honoris causa. Nel 1992 crea una fondazione per aiutare con borse di studio le studentesse africane, e nel 2001 viene nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Sotto il governo Prodi, il suo voto diventa decisivo: minaccia di bocciare la legge finanziaria se verrà mantenuto il taglio dei fondi per la ricerca. E la spunta.
In occasione del suo centenario, nell’aprile 2009, le viene tributata una settimana di cerimonie e concerti. «Con abiti squisiti, i capelli accuratamente pettinati e le mani fresche di manicure», scrive Alison Abbott, ogni mattina la scienziata si presenta all’EBRI (l’ Istituto europeo per la ricerca sul cervello-Rita Levi Montalcini presso la Fondazione Santa Lucia di Roma) e trascorre qualche ora negli uffici della sua fondazione. Durante i festeggiamenti, come sempre in presenza del pubblico soprattutto se giovanile, si “sente rivivere”, ma poi ammette di non aver più memoria a breve termine: solo con grandi sforzi riesce a concentrare l’attenzione per qualche minuto. «Sono sempre stata vanitosa», ammette con ironia. Forse è questo il suo tallone d’Achille, la debolezza che con l’età avanzata le è costata qualche passo falso, che spiace testimoniare, per amore di verità, in una carriera così brillante. La scelta di stabilire a Roma l’EBRI, infatti, si è rivelata non del tutto fortunata e mossa forse più dalla vicinanza con i centri decisionali che con quelli di ricerca. Questo spiega in parte la crisi finanziaria e di fiducia in cui versa l’istituzione di cui è stata l’attiva presidente fino alla frattura del femore, nel febbraio 2010, e che ha visto un turn over di quattro direttori scientifici in cinque anni di attività. Un altro spiacevole episodio di questa stupenda carriera è la firma, nel giugno 2009, annessa a quella di alcuni ricercatori di altri enti romani, di un articolo – a proposito di un esperimento clinico con l’NGF su tre pazienti affetti da glaucoma e conseguenti danni al nervo ottico. I risultati positivi sono stati messi in dubbio da più ricercatori che hanno criticato l’assenza di un “gruppo di controllo”, pazienti ai quali viene somministrato un placebo, o un altro farmaco dall’efficacia già nota. Un errore che lei, prima, non avrebbe mai fatto.
1. Nel 1994 Duilio Poggiolini, il “re della malasanità” condannato a 4 anni e mezzo di arresti domiciliari e a risarcire 39 miliardi di lire incassati come tangenti, insieme alla moglie, ha accusato il premio di esser stato “comprato” dalla casa farmaceutica Fidia in cambio di una donazione alla fondazione Nobel. L’accusa è falsa, non è la fondazione Nobel ad assegnare il premio, ma l’Istituto Karolinska i cui bilanci sono pubblici, ma pur lanciata da tale pulpito, ricorre tuttora, dopo che è stata ripresa nel 2001 da Beppe Grillo poi condannato a una multa di 4.000 euro per diffamazione aggravata.