«Per la strada cantavo sempre, i pastori quando mi sentivano dicevano oggi Maria è di fiume…quando avevo paura, correvo e cantavo. Ho sempre detto che scacciavo le Ombre dalla mia strada solo attraverso la mia voce…avevo paura del buio, sentivo echi di passi, sapevo che erano loro, le Ombre, che mi accompagnavano dal mondo del passato. Allora cantavo a voce delirante».
Queste sue parole, e le altre citate di seguito, sono state raccolte da Emanuele Garau in un prezioso libro biografico-autobiografico dal titolo Maria Carta per Edizioni Della Torre; esse ci donano la genesi del suo canto disperato mentre, bambina, cammina da Sìligo a Biddanòa con la cesta colma di panni da lavare al fiume. Ma sono anche traccia da seguire per capire il senso della sua ricerca etnomusicologica: «Quando un canto ti allontana dalle paure allora è un fatto liberatorio, magico e io sono andata a riscoprire questo». Riti, canti e poesia di un mondo scritto sul suo volto, sentito dentro fino all’esasperazione, che genera anche ribellione, «quasi un odio verso questo mondo sardo quando si chiude in se stesso, quando si ferma, quando rifiuta la possibilità di fare vedere agli altri la propria anima…io mi sento molto triste dentro, forse è una tristezza ancestrale e ora ho bisogno di rappresentarla questa tristezza, io chiedo ai morti aiuto per questa vita che è difficile da vivere».
Una vita fin dall’infanzia invasa da ricordi pieni di fatica. A piedi verso Sassari per guardare l’ultima volta le mani stanche del padre malato: le osserva tra le mura di un ospedale pensando a cosa sarebbe potuto essere il domani senza di lui; come lei stessa scriverà è un uomo morto di povertà. Correndo a piedi nudi sulla polvere, gridando rabbia, frequenta la scuola e lavora, circondata dalla luce arcana di quella valle, evocata in alcuni suoi versi, dove s’incontrano i vivi e i morti. Il grano da sarchiare, la lana da filare, le olive da raccogliere, la legna da cercare insieme alla nonna che «fissava i sassi senza tempo, sentiva la malìa del niente».
Dirà molti anni dopo, nel 1988, in un concerto in occasione del IX centenario dell’Università di Bologna, presso la quale era stata nominata docente a contratto in antropologia culturale: «Io purtroppo non ho avuto la possibilità di trascorrere la mia giovinezza china sui libri, ma affaticando la schiena sul lavoro, ed essere qui oggi è molto importante per me, perché mi rendo conto che nella vita ciò che conta non è la fortuna che si ha in gioventù, ma quanto si riesce a costruire da soli».
A otto anni la chiesa di Sìligo accoglie la sua voce, la Ninna Nanna ‘e Nadale, la messa in latino, il Dies Irae che intonerà durante il funerale di un suo amico di dieci anni così intensamente da star male per giorni ricevendo dalla madre il divieto di cantarlo per molto tempo. Durante le feste popolari, dove si esibiscono i cantadores e le piazze diventano teatri per le improvvisazioni poetiche, è il nonno che inizia ad accompagnarla a cantare nei paesi vicini. Gli anni Cinquanta portano Maria Carta ad avere già una certa riconoscibilità in terra sarda; mentre sfuma la prima opportunità lavorativa che la vede protagonista di un fotoromanzo, vince avvolta da un taffettà di seta il concorso “Miss Sardegna”. Diventa una donna che cammina verso il futuro, sceglie di prendere la patente di guida come prova di emancipazione, e alle soglie degli anni Sessanta lascia la Sardegna e raggiunge Roma. «Non sapevo cosa cercavo né a che cosa sarei andata incontro, ma avevo bisogno di cambiare vita…ho buttato il mio cordone ombelicale come un’ancora, sicuramente è ancora lì, impigliato nel punto più alto di Tavolara. L’impatto con la grande, grandissima città fu molto difficile, mi ha messo un’enorme paura; avevo paura di non essere accettata, paura di sbagliare…ho dovuto cercare dentro di me la forza per sopravvivere, non mi sono liberata mai fino in fondo di questa diversità che mi sentivo addosso». A Roma inizia a svolgere diversi lavori, conosce lo sceneggiatore Salvatore Laurani con il quale si sposerà di lì a poco: «Decise tutto di me: dovevo essere la sua donna, io lo amo e divento sua moglie, la sua massaia, la sua creatura musa. Poi lui decide che ho una vera fortuna in gola, che sono un’artista e mi butta sul palcoscenico…io ho il terrore della ribalta, la gente mi fa paura e mi sento umiliata perché sono ignorante, non sono andata a scuola e mi sento così inferiore: non sono nemmeno capace di dargli un figlio».
Frequenta il centro studi di musica popolare dell’Accademia di Santa Cecilia diretto da Diego Carpitella, iniziando a esplorare la sua terra per ricercare e registrare antichi canti salvandoli dall’oblio e dando loro la sua voce: «In Sardegna il canto è nato femminile, insieme alla poesia è nato, ai tempi del matriarcato…un canto quando lo raccogli è come se fosse chiuso in un archivio poi quando lo elabori, mettendoci qualcosa di tuo, il dolore, la gioia è come dargli nuova vita, questo è importante».
Si scontra con la difficoltà di essere accettata come donna sul palcoscenico in Sardegna, perché, racconta, «allora il canto sardo era appannaggio esclusivo degli uomini». Ridona presenza femminile al canto gregoriano, scriverà di lei Giuseppe Dessì nella presentazione del disco Delirio: «Tra i rari documenti della lingua logudorese ci sono i canti che Maria fa conoscere al mondo, di festa e di solitudine, di dolore e di gioia, dicono la vita di un popolo, di quel popolo che lei ama e che canta liberando nella sua voce stupenda la forza esistenziale del suo sentire».
Entra in contatto con Ennio Morricone che la propone alla RCA. Nel 1971 esce il suo primo album intitolato Paradiso in re. Don Dettori, poeta logudorese, le regala un libro di poesie e quasi tutte diventeranno suoi canti. Frequenta l’etnomusicologo Gavino Gabriel che diventa suo maestro. Nel 1972 tiene un recital a Sìligo: «A un certo punto ho annunciato sa disisperada, una canzone dell’alba, del risveglio che viene dalle arcaiche tradizioni popolari sarde. Da sotto il palco un vecchietto mi ha guardato dicendomi qui ti voglio vedere…alla fine zio Gerolamo, così si chiamava il vecchietto, piangeva».
Nello stesso anno viene trasmesso un documentario dalla Rai Incontro con Maria Carta nel quale Maria Carta interagisce con Riccardo Cucciolla recitando versi, cantando, raccontando frammenti autobiografici con la fotografia di Franco Pinna e i testi di Velia Magno. Ancora un altro documentario Maria Carta. Sardegna, una voce con regia di Gianni Amico e soggetto, sceneggiatura, collaborazione artistica di Salvatore Laurani. È anche sul palcoscenico del Teatro Argentina a Roma, il suo successo inizia a oltrepassare i confini nazionali, tiene un importante concerto al Bol’šoj di Mosca, molti altri concerti in tutta Europa. Nel 1973 intreccia la sua voce con quella di Amália Rodrigues in una serie di concerti: i teatri sono sempre gremiti. Tra il 1977 e il 1988 diventa protagonista anche nel cinema, recita per Comolli, Coppola, Zeffirelli, Rosi, Tornatore, Cabiddu, Moser. La sua voce vibra anche attraverso il teatro. Nel 1973 partecipa alla Medea di Euripide, per la regia di Franco Enriquez, continuerà con altre rappresentazioni negli anni successivi tra le quali la partecipazione a Le memorie di Adriano per la regia di Maurizio Scaparro mentre nel 1992 interpreterà Teresa D’Ávila. Anche le partecipazioni televisive sono numerose, rimando al già citato libro di Garau per un racconto cronologico approfondito.
Nel 1975 viene pubblicata una raccolta di versi dal titolo Canto rituale (riedita dalla Fondazione Maria Carta di Sìligo nel 2006) che affida alla poesia la denuncia sociale. È il suo sguardo sui dimenticati che dà luce alla disperazione dei monti così come al lavoro che uccide nelle fabbriche del Belgio, alla polvere e al sudore penetrati nelle rughe come ferite, anno dopo anno, sui volti di milioni di uomini e donne distrutti, illuminati dalla luce dell’alba e pietrificati. Lo fa dando voce a una sorta di enciclopedia dei morti, evocando Nicola Virdis che scende a settecento metri nel nero di una miniera «con ottocento sardi siciliani pugliesi molti sono morti quattro sono impazziti a noi resta la silicosi», Totoi Musina che nella sua baracca scrive «qui ci sono turchi slavi tutti come noi senza voto né diritti civili». La terra fuma per il denaro che distrugge i boschi a colpi di scuri, lasciando solo un miele amaro, «Ziu Grallinu vide nel telegiornale un industriale ballava a Porto Cervo comprava coste in Sardegna. Urlò: a lui gli danno i contributi noi non abbiamo da mangiare!». Evoca quel mondo pastorale con «neanche il pane per i figli solo un mucchio di debiti!…Ci scanneremo l’uno con l’altro e loro i politici continueranno a regalare soldi agli industriali…loro hanno un piano ridurci alla fame farci partire in continente e qui resterà una colonia di disperati condannati a ciò che vogliono i notabili pagati dall’industria: un nuovo feudalesimo senza fine». Attraverso la storia di Simone Puddu, ancora grida «migliaia di agnelli nascono morti moriranno i nostri branchi mi avvento con la roncola sugli alberi taglio i rami per far mangiare le bestie ma gli alberi sono spogli accendo fuochi deliranti per scaldare le bestie carezzo i loro musi in agonia. Sale un sindacalista dice: siamo al collasso totale. Mi giro nella tormenta disperato e penso: che farò per allevare i figli? Moriranno anche loro? Che farò? Ruberò?».
Le sue sono parole politiche, nel 1976 diventa consigliera comunale a Roma, di quell’esperienza portata avanti con costanza, scriverà: «L’attività politica è stata un flash nella mia vita. Ho frequentato, mi sono impegnata: e sono momenti che mi sono serviti molto, è stata una grande esperienza. Adesso credo che non fosse giusto fare politica…Forse è stato un mio momento di protesta, di presa di coscienza».
Arrivano gli anni Ottanta, è attraverso le conoscenze maturate durante l’attività politica che sarà traghettata verso un cambiamento radicale nella sua vita privata, conoscerà un nuovo amore interrompendo il matrimonio lungo vent’anni con Salvatore Laurani e unendosi a un giovane architetto con il quale avrà un figlio, David.
Continua a incidere dischi, diventando molto popolare in Francia e calcando i più importanti palcoscenici parigini, l’Olympia e il Théâtre de la Ville e condividendoli con generosità: «Ho portato diversi gruppi all’estero, il Coro di Bitti, Luigi Lai, il Coro di Neoneli, e questo è molto importante perché mi rendo conto che non esiste solo il mio canto, il canto gregoriano, ma esiste anche quello che fanno gli altri».
La sua fama è ormai internazionale, ma dalla seconda metà degli anni Ottanta alcuni eventi dolorosi segnano la sua vita. Muoiono la sorella e la madre e si trova di nuovo da sola, senza il padre di suo figlio: «Io non credo che si possa sperimentare l’amore, il vero amore, senza rimanerne uccisi…l’amore vero, profondo, uccide perché finisce e finisce sempre da una parte sola. All’improvviso ti accorgi che il tuo cervello, per anni e anni, è stato inghiottito da uno sconosciuto. Un predone ha invaso la tua casa e ha portato via tutto, la tua vita di artista, la tua vita di donna. Ti senti saccheggiata, non hai più niente: vuota. …Se chi amo mi abbandona, se non mi permette più di amare, io perdo vita. E ho perso anche la forza di cantare».
La voce svanisce anche perché divorata dal cancro che «non era che l’ultima fase di una malattia che covavo dentro da anni, che mi aveva tolto la voglia di vivere e anche di cantare. Mi era sparita la voce, come inghiottita dall’angoscia. Da qualche anno vivevo in uno stato di abbandono, assente da me stessa, inerte. Per cantare, le poche volte che ci riuscivo, ricorrevo a pastiglie di cortisone: la voce altrimenti mi spariva da dentro la gola, non veniva fuori».
Resiste vincendo per alcuni anni la malattia, continua a cantare mettendo nella sua voce tutte le forze rimaste in corpo. Rimando ancora al libro di Garau per tutti i concerti e gli eventi che l’hanno coinvolta in quegli anni, descritti con rara intensità e accompagnati da toccanti riflessioni di Maria Carta sul dolore: «la grazia si chiede in silenzio, di nascosto, e di nascosto dovrebbe arrivare. Io ho chiesto molto col mio mutismo: nelle difficoltà siamo sempre muti, non ci sono parole per esprimere il dolore». Racconta un coraggio che nasce dal riuscire a tessere il tragico dentro di sé, dall’essere voce che libera altre voci. Quando inclina il viso verso la sfumata conclusione del suo canto rituale, le note di organo sono piccole luci che trascinano la sua voce in una scenografia di chelu e mare. Naviga la sua vita in una notte di settembre attraversando battiti e lacrime, corre, torna bambina avvolta dai colori della sua infanzia sarda, canta ancora in quel coro di avi ridendo in festa in un luogo dove la morte non esiste.