Nasce a New York il 14 giugno del 1904, e cresce in una famiglia borghese. Si iscrive alla Columbia University attratta dalle scienze naturali, ma presto, grazie al corso tenuto da Clarence White (omonimo ma non parente e tra le figure più importanti del fotosecessionismo) orienta la sua attenzione verso la fotografia.
Già da ragazza manifesta l’essenza del suo carattere e della sua vita: l’ambizione, l’indipendenza e inevitabilmente l’irrequietezza. Non le basterà mai essere la migliore, la più apprezzata e versatile tra le fotografe della sua generazione, vorrà essere sempre la prima. Cambia diverse università fino a laurearsi nel 1927. Nel frattempo si sposa, nel 1925, con Everett Chapman, dal quale divorzia due anni dopo.
Nel 1928 decide di trasferirsi in Ohio e lì apre uno studio fotografico, specializzandosi nella fotografia d’architettura, di design e industriale. A Cleveland ha numerosi clienti, tra cui le acciaierie Otis, che le danno fiducia, ma anche notorietà. Le sue fotografie degli altiforni, le astrazioni geometriche che le permettono le architetture industriali, ne fanno una delle fotografe più apprezzate anche nell’ambito della ricerca artistica. Si può considerare Bourke-White la prima fotografa industriale famosa e tra i primi fotografi a dare rilievo artistico alla fotografia industriale. Per scattare sale sui cornicioni dei grattacieli più alti, sorvola città, si spinge nelle zone più pericolose degli stabilimenti. La sua ostinazione e ambizione infatti non la fermano davanti alle alte temperature delle fusioni, alla ricerca di nuove soluzioni tecniche fotografiche, né la allontanano da lunghe ore di lavoro in ambienti malsani. Le sue immagini presto iniziano non solo ad arricchire di documenti fotografici gli archivi industriali e il suo portafogli, ma anche i servizi delle riviste illustrate e le pagine pubblicitarie.
Così nel 1929 ha inizio la sua collaborazione con la rivista «Fortune» e la sua nuova ambizione è di essere la “migliore” tra le fotogiornaliste. Nel 1930 è la prima fra i fotografi occidentali a recarsi in URSS, realizzando reportage sull’industria sovietica. Nel 1935 è chiamata da Henry Luce a far parte della redazione fotografica del nuovo rotocalco «Life» e sua è la prima copertina della rivista: una fotografia dell’imponente diga di Fort Peck nel Montana, a simboleggiare il New Deal roosveltiano. Il suo obiettivo in questi anni è infatti sempre più vicino all’emergenza sociale degli Stati Uniti; sua ad esempio è la celebre fotografia della fila di persone di colore, in attesa della distribuzione di un pasto, sovrastati dalla pubblicità di una automobile con a bordo la tipica famiglia americana wasp e la frase “World’s highest standard of living”.
Nel 1937, insieme allo scrittore di successo Erskine Caldwell, che nel 1939 diventerà il suo secondo marito (il matrimonio durerà fino al 1942), pubblica il volume illustrato You have seen their faces sulle tragiche condizioni di vita nelle campagne americane devastate dalla siccità, dalla carestia, dalla miseria. Il libro viene contestato da più parti perché presenta una realtà molto più edulcorata della realtà tragica che altri fotografi avevano mostrato, ma ebbe ugualmente successo così come i seguenti due libri che pubblicò con Caldwell: North of the Da nube (1939) e Say, is this the USA (1941).
Negli stessi anni, sempre per «Life» è inviata in Europa: in Germania, Austria e Cecoslovacchia per documentare l’avanzata del nazismo e la guerra incombente.
Nel 1941 è per la seconda volta, con Caldwell, a Mosca. I suoi movimenti sono strettamente sorvegliati e fotografa soprattutto la vita cittadina. Non di meno riesce ad inviare uno scoop alla redazione: in Unione Sovietica non vige l’ateismo. Un servizio di dodici pagine che servì a «Life» per presentare l’URSS non più come il pericolo rosso, ma come possibile alleato antinazista.
Le fotografie di Bourke-White mostrano una chiesa ortodossa e una protestante nel centro di Mosca. Riesce anche a ritrarre Stalin sorridente e bonario. Ancora: Margaret il 19 luglio 1941 è l’unico fotografo straniero in città. Il primo attacco aereo dei tedeschi sulla capitale, il bombardamento notturno, i tracciati dei bengala. Tutto questo vede e fotografa Margaret dal tetto dell’ambasciata americana, posizionando cinque apparecchi con lunghi tempi di posa, commentando che sarebbe potuta essere “una delle notti eccezionali della sua vita”. Ancora una volta prima, le sue foto furono presentate da «Life» con grande sensazionalismo.
Rientrata negli USA Margaret impone la sua volontà di diventare reporter di guerra sulla prima linea del fronte. Mai nessuna donna era stata accreditata dall’esercito americano sui teatri di guerra, ma la determinazione della fotografa insieme alla forza di persuasione che poteva avere una rivista come «Life», la più diffusa sul territorio statunitense, hanno la meglio. Margaret Bourke-White è accreditata al pool fotografico dell’esercito, viene disegnata appositamente per lei un’uniforme che ha sulle mostrine la sigla WC (sic!) cioè: war corrispondent e viene mandata in prima linea. Anche lì i problemi logistici non mancano, essendo l’unica donna tra soldati, marinai, aviatori. Letto, tenda, bagno: in prima linea non si può certo indulgere nei particolari ritenuti più adatti per una signora e ben presto il suo soprannome tra le truppe sarà “Il materasso del generale”, mentre lo staff di «Life» con più ammirazione la definisce “Maggie l’indistruttibile”.
Sicuramente Margaret Bourke-White in guerra ha dato il meglio di sé sia come donna sia come fotografa. Il suo obiettivo si ferma sui campi di battaglia, sui momenti di riposo, gli ospedali da campo, i bombardamenti. Fotografa il nord Africa, la lenta risalita dell’Italia diventata un fronte secondario dopo lo sbarco in Normandia; e soprattutto con la sua pellicola ferma i tragici momenti dell’arrivo degli americani guidati dal generale Patton a Buchenwald. Le immagini dei volti increduli oltre il filo spinato, dei forni crematori, delle baracche dei lager non sono semplicemente fotografia, ma documenti storici di enorme valore. Lei stessa davanti allo strazio della realtà dichiara di aver scattato senza guardare, che l’obiettivo le serve come barriera tra sè stessa e l’agghiacciante verità dell’orrore che ha di fronte.
Al ritorno dalla guerra non mancano i libri con le sue fotografie: They called it Purple heart Valley, sulla campagna d’Italia e Dear Fatherland, Rest Quietly.
Margaret non consente alla sua fama ormai mondiale di indurla a riposare e continua a fotografare il mondo. Anche per questo non le si assegnano servizi fotografici già previsti, ma ne vengono pensati appositamente per lei.
Nel 1947 è in Pakistan e in India, nuovo centro di tensioni nel momento della nascita dei due Stati: intervista e fotografa Ghandi solo poche ore prima che venga ucciso. Nel 1950 è in Sud Africa: descrive l’apartheid e scende due miglia sottoterra per ritrarre il lavoro dei minatori d’oro; è in Corea subito dopo la firma dell’armistizio, a documentare la guerriglia e la popolazione civile ancora una volta in guerra. È sempre prima, sempre la migliore, ogni suo libro un successo. Ma il morbo di Parkinson inizia il suo corso. Nel 1957 firma il suo ultimo servizio per «Life».
Nel 1963 scrive l’autobiografia Portrait of myself. Gli ultimi anni vive ritirata nella sua casa in Connecticut, con i pochi soldi messi da parte spesi per le cure mediche. Morirà sola, ma non dimenticata, nel 1971, a sessantasette anni.