“La pittura di Luciana Bora, che ha preso le mosse da un realismo a sfondo sociale, come si vede nei suoi quadri giovanili, ha poi lasciato quei temi, a forte rischio di retorica, ma non ha cambiato il suo modo di osservare. Il suo sguardo ci insegna a prestare attenzione non alle cose che la reclamano, ma a quelle che non la cercano, anzi non ritengono nemmeno di meritarla. E di solito ne avrebbero più diritto”. Elena Pontiggia.
Luciana Bora nasce a Treviso il 13 giugno 1926, è la prima di otto figli. A dieci anni sopravvive a una meningite che però la lascia sorda, così nel 1939 il padre Giuseppe, che non può sopportare l’idea di un futuro ridotto per la primogenita, sposta tutti a Milano, dove la giovane potrà frequentare la moderna scuola Giulio Tarra per sordomuti. Lì Luciana impara, grazie al metodo dell’oralismo, a leggere il labiale e a comunicare senza mai utilizzare la gestualità dei sordomuti. Diversamente dai sordi alla nascita, sa parlare perfettamente; e ha memoria dei suoni e della musica.
Nel 1941 Bora inizia il liceo artistico a Brera, sono gli anni della guerra; mentre la famiglia si rifugia ad Abbazia (ora Croazia), il padre e la figlia maggiore restano a Milano. “Oggi durante la lezione ho visto dalla finestra i quadri della pinacoteca tutti imballati che sfollano anche loro” scrive alle sorelle.
Dal settembre 1945 è all’Accademia, riaperta sotto la guida di Aldo Carpi, dove frequenta pittura nella classe di Achille Funi e partecipa a diverse collettive e premi, tra cui diverse edizioni del Premio Diomira (premio biennale ambitissimo per sostenere i giovani artisti tra i venti e i trent’anni).
Nel 1954, due mesi dopo la prima personale si sposa con Giulio Pierini; la vita famigliare (nel 1955 nasce Francesca, nel ‘57 Paolo e nel ’66 Giovanna) non rallenta il lavoro, ma non è lo stesso per la pianificazioni della carriera, probabilmente prima coordinata anche con l’aiuto del padre. “Non dimenticare la scadenza del premio Diomira“, le scrive sul retro della busta di una lettera spedita nel febbraio 1951. Anche il marito non le fa mancare il sostegno, ma non è facile emergere.
Scrive Elena Pontiggia:
“Oggi si assiste a una doverosa riscoperta delle artiste, ma per una, due o dieci ritrovate, quante rimangono nell’ombra? E, peggio, quanti sentieri interrotti, magari dopo essere appena iniziati, hanno segnato l’arte al femminile? Gallerie che non ti accettano, collezionisti che non ti acquistano, critici che ti considerano una dilettante. Lo vediamo anche nel percorso di Luciana Bora che ha riscosso, certo, alcuni apprezzamenti significativi, ma a ben vedere non ha mai trovato un gallerista né una sede espositiva importanti che scommettessero sul suo lavoro. Eppure, nonostante queste circostanze difficili (aggravate nel suo caso da una condizione di non udente, dovuta a una meningite contratta da bambina), l’artista ha lasciato un corpus di circa duemilacinquecento opere, segno di una vocazione alla pittura che non l’ha mai abbandonata”.
La vasta produzione pittorica e grafica parte, nei primi anni Cinquanta, ancora influenzata dal realismo per poi prendere un binario proprio, definito, ma non classificabile in una precisa corrente. Non è così difficile riscontrare tale attitudine anche in altri pittori dell’epoca, primo tra tutti Carpi, che non aderiscono mai pienamente a un movimento, senza per questo rinunciare a una ricerca personale al passo con i tempi.
Nel corso dei decenni anche restando fedele a soggetti amati (paesaggi liguri e veneti, orti di campagna o periferia, figure fisse o impegnate in qualche attività), il segno diventa più informale. I paesaggi degli anni Sessanta sono a volte descritti con furiosi segni di pastello sul foglio, oppure estratti con leggerissimi acquerelli.
Da questo momento perfeziona la tecnica mista di pastello e acquerello. A volte l’acquerello è la base narrativa e il pastello ne fissa i particolari, altre volte l’operazione è invertita.
Negli anni Settanta accanto a orti, giardini e boschi emergono le radici, i rami e i particolari del sottobosco. E si inaugura una nuova stagione, quella delle nature morte. Il ceppo raccolto nella passeggiata è appoggiato sul suo tavolo da lavoro, così come i cardi lasciati a seccare in una vecchia pentola di terracotta.
Fino agli inizi degli anni Ottanta la casa è ancora piena di figli e via vai di ragazzi; all’ingresso, separato da un tramezzo di legno e vetro dipinto, c’è lo studio di Luciana. Entrando si sente il profumo dei colori ad olio e dei solventi.
Poi, piano piano, le stanze si svuotano. Il primo a cambiare è Paolo, che si trasferisce prima a Bologna e poi a Treviso. Nel 1982 si sposa Francesca, i genitori, che vivono due piani più in basso, lasciano la casa che occupano da prima della guerra. Nel 1985 muore la madre.
Sono anni in cui gioie e malinconie si alternano a ritmo serrato. E certi orti di periferia minacciati dal temporale, nature morte con colori più spenti o studi di oggetti abbandonati lo raccontano.
Nell’agosto 1985 parte per Filicudi, l’isola che la figlia Francesca e il marito frequentano da diversi anni. È un’epifania. Il verde, che ha dominato i paesaggi degli scorsi decenni è sostituito dai toni ocra, gialli, bruciati e viola.
Nel 1986 nasce il primo nipote, Tommaso, e Luciana Bora, il marito e l’ultima figlia si spostano dalla casa di via Petrarca abitata per cinquant’anni, a Baggio. L’appartamento è piccolo e non c’è spazio per dipingere. Ma lei, unica del trio famigliare a non patire l’esilio del decentramento, parte per esplorare i dintorni e trova a portata di mano alcuni dei suoi soggetti prediletti: gli orti di periferia e le cave.
Dopo un paio d’anni il marito Giulio le trova uno studio nel cortile de El Palaziett, storica dimora di Baggio. Dal 1999, dopo la morte del marito, Bora torna a Filicudi, segue i figli nei viaggi e spende sempre più tempo nello studio, dove ai ricordi dei nuovi paesaggi si aggiungono riflessioni più intime.
Il lavoro sulle nature morte diventa sempre più concettuale, fino a sfiorare l’astrazione; suo fratello Giulio Bora, storico dell’arte e suo collezionista, oltre che interlocutore privilegiato, ne colleziona un buon numero.
L’attività di Luciana Bora è interrotta bruscamente dalla morte improvvisa, Il 26 luglio 2007 a ottantun anni; è attiva da sessanta, eppure all’apertura dello studio tutto (i disegni sul tavolo, la natura morta non finita sul cavalletto, la tavolozza con i colori ancora morbidi e il persistente profumo del loro impasto) suggerisce la presenza di una giovane ancora in viaggio.