«F4: colpito; A1: colpito; B7: colpito. Brava la mia Lucia! – E ora con il rovescio». Non erano formule matematiche, e neppure le coordinate di una partita di “battaglia navale”, ma quelle di una griglia di riquadri disegnati sul campo da tennis nel giardino di Villa Valerio a Casciago (Varese). Il campo era stato infatti suddiviso, con linee orizzontali e verticali, in riquadri contrassegnati appunto con lettere dell’alfabeto e numeri: come per una battaglia navale, dove, invece di affondare le navi, Lucia doveva affondare le palle da tennis che il padre Guido, al di là della rete, le lanciava.
Le palle venivano colpite da una racchetta di legno con le corde in budello, ed erano rigorosamente bianche. Bianche come le gonne al polpaccio, le camicie inamidate, calze, scarpe e la visiera sul capo. Perché bianco era il colore del rispetto e della nobiltà.
Suo padre era Guido Valerio, sua madre Olga Kogan; una russa adottata insieme alla sorella e a una cugina da una importante famiglia italiana. Guido e Olga avevano dato ai figli maschi, Giorgio, Giancarlo e Mario un’educazione molto severa e studi appropriati che li avevano portati rispettivamente a divenire presidente della Edison, responsabile di una grande industria tessile e famoso oculista. Per Lucia, in un’epoca in cui le ragazze non dovevano studiare troppo, avevano scelto la disciplina dello sport, allora per le donne privilegio di una élite, indirizzandola allo sci, alla scherma, all’equitazione e al tennis. E quest’ultimo sport l’aveva conquistata al punto che nel 1926 si presentò ai Campionati Nazionali che si svolgevano a Trieste. Li vinse. Aveva 21 anni, perché era nata il 28 febbraio del 1905 a Milano in una famiglia dell’alta borghesia, che, come era uso a quei tempi, aspirava che i figli giungessero a ricoprire incarichi prestigiosi per portare l’Italia al raggiungimento dello stesso livello ottenuto dalle altre grandi nazioni europee.
Nei mesi invernali le case milanesi della borghesia che contava erano sempre aperte agli amici, al mondo dell’industria e a quello della cultura; nei mesi estivi invece tutto avveniva nelle ville del Varesotto, della Brianza o sul Lago di Como. Dopo Casciago, Guido Valerio, colloca la sua residenza estiva a Gironico (Como) dove, ovviamente, non manca il campo da tennis. E così, con il tennis in casa, Lucia è sempre in allenamento e può vincere per dieci anni, di cui nove consecutivi, i campionati italiani, una vittoria e quattro finali agli Internazionali d’Italia, due quarti a Parigi e uno persino a Wimbledon. Qui vinse per ben due volte il Plate, una sorta di torneo di consolazione per quei giocatori che erano entrati nei quarti di finale. Lucia raggiunge così il n.10 nella classifica mondiale. Tutti questi titoli in “singolo”, perché ci sono anche quelli di “doppio”.
Sono dieci anni gloriosi per la giovane Valerio, che il Tennis Club Milano annovera tra i suoi soci, facendosene giustamente gran vanto. Sui campi di via Arimondi Lucia giocherà per diletto fino ai 90 anni. Non la ferma neppure la scoperta, avvenuta per caso nel suo ottantesimo anno di età in seguito a un esame medico necessario per un banale intervento, di avere sempre avuto un rene solo. «Grazie al cielo i medici non l’hanno capito prima» fu il suo commento «altrimenti i miei famigliari non mi avrebbero lasciato giocare».
Lucia Valerio ha sempre usato la parola gioco in luogo di sport, anche perché la racchetta da campionessa era stata deposta nel 1935 quando il Paese aveva dovuto mandare i giovani italiani (e quindi anche i suoi fratelli), a combattere in Africa. Nonostante la sua grande passione per il tennis, Lucia aveva allora deciso che non era più tempo di giocare, ma di agire, ed era entrata come volontaria a far parte della Croce Rossa.
Del suo stile sul campo si può dire che fu una delle prime donne a servire dall’alto e che il suo dritto (drive, come si diceva allora) era molto potente. Ottimo anche il rovescio, e soprattutto proverbiale la sua regolarità da fondo campo. Se ne ricordavano bene Suzanne Lenglen, Dorothy Andrus, Ida Adamof, Elisabeth Ryan, Helen Jacobs e molte altre ancora che le erano state avversarie.
Per questo suo grande amore per la racchetta (sempre stretta in un morsetto quando non giocava, onde evitare che il piatto corde si deformasse) Lucia non si sposò mai e teneva a essere chiamata “signorina”. Data la sua lunga vita e la sua solerte frequentazione dei campi in terra rossa (non era neppure lecito nominarle il sintetico!) ha avuto occasione di incrociare la racchetta per diletto con molte generazioni di tenniste; di conseguenza ha avuto la necessità di inventarsi sempre nuovi colpi per controbattere i diversi sistemi di affrontare le palle avversarie, nel frattempo diventate gialle, e l’impatto con i nuovi materiali delle racchette: acciaio, fibra di vetro, resina e, anche accordature e dimensioni.
Lucia Valerio è stata pure capitana non giocatrice della nazionale femminile della quale facevano parte Lea Pericoli e Silvana Lazzarino. Ma non ha tenuto a lungo questo incarico perché a suo giudizio quel bel gioco da signori non era più neppure uno sport, ma soltanto un mezzo per fare soldi.
Lucia Valerio
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Gianni Clerici, 500 anni di tennis, Milano, Arnoldo Mondadori Editore 1974
Referenze iconografiche:
Prima immagine: Lucia Valerio nel 1930. Fonte: Béla Kehrling, ed. (December 6, 1930). "Olasz bajnokságok [Italian championships]". Immagine in pubblico dominio.
Seconda immagine: Lucia Valerio. Fonte: Biografieononline.it. Immagine in pubblico dominio.
Lia Del Corno
Nasce e vive a Milano. Traduce (molto) dal francese, inglese e tedesco e scrive (poco) per Adelphi, Garzanti, Mondadori, RCS Libri, ma soprattutto si è occupata di teatro e ha curato le proposte culturali del Piccolo Teatro di Milano, del Franco Parenti e del Teatro Popolare di Roma. È sua l’idea delle lezioni-spettacolo che ha promosso con energia e entusiasmo. Attualmente continua l’attività di traduttrice; scrive libretti di opere liriche dedicate soprattutto ai giovani, firma qualche scenografia e disegna costumi.