Lucia Drudi Demby

Venezia 1924 - Firenze 1995
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Erano gli anni cinquanta […] Io, provinciale, aggrappata al trapezio incorporale di una scrittura lirica, libera, senza destinatario e senza peso, scandagliatrice unicamente da e verso l’esclusivo «in sé»…
in AA. VV. Almanacco di Firmato Donna (1986)

Lucia Drudi o Tatina Drudi nacque a Venezia nel 1924 dopo la sorella maggiore Gabriella Drudi detta Lalina (1922-1998), che fu traduttrice, scrittrice, agente letterario, si occupò di critica d’arte e fu a lungo compagna e poi moglie, dal 1972, del poeta e pittore Toti Scialoja, come confermano gli studi di Maria De Vivo.

Riguardo i primi anni di vita si hanno scarse informazioni eppure si sa che le due avevano trascorso l’infanzia e l’adolescenza a Siena nella famiglia materna. Dal 1948 si erano trasferite a Roma, la città in cui costruiranno la loro fortuna personale: come evidenzia ancora De Vivo, Gabriella fonderà insieme a Fabio Coen l’agenzia letteraria in cui, dal 1949, subentrerà Lucia; il loro esempio si prefigura isolato e coraggioso per due donne sole, senza padri né rappresentanze politiche a sostegno. Lucia, inoltre, in quegli anni inizierà a pubblicare racconti e a occuparsi di arte contemporanea, di cinema come soggettista e sceneggiatrice, e di traduzione, pubblicando poi alcune opere di narrativa in volume e in riviste femministe. Il suo percorso pare svilupparsi, dunque, del tutto in sinergia con Lalina: in un milieu comune, secondo uno scambio reciproco di intenzioni e attività che le rese soggetti attivi del loro tempo.

La firma di Lucia è quanto di più fuorviante vi sia per ricostruire i suoi movimenti autoriali: il nome da ragazza, Lucia Drudi, è spesso reso come Lucia Drudi Demby a seguito del matrimonio con il poeta statunitense William Demby nel 1950; dalla loro unione, che durò fino al 1965, nacque il poi musicista James Gabriele Demby. Nei credits dei film cui lei collaborò si rintraccia talvolta il nome di Tatina Demby o il doppio cognome Drudi Demby fatto che, almeno in prima battuta, non permette facilmente di accreditarla.

Gli anni Cinquanta segneranno il suo futuro su più fronti, come lei stessa riconosceva. Le prime prose brevi escono, infatti, su riviste letterarie importanti con le quali collabora saltuariamente: «L’immagine» di Cesare Brandi, «Botteghe oscure» fondata da Marguerite Caetani e «Il Caffè» di Giambattista Vicari. Riserva attenzione anche alle riviste d’arte iniziando a pubblicare testi e commenti critici con un taglio personale. Nel 1951 scrive Divagazioni per la pittura di Toti che appare nel catalogo della mostra modenese Toti Scialoja alla saletta. Come Gabriella, che dal 1956 pubblicherà sulla rivista romana della Fondazione Origine «Arti Visive», anche lei si occuperà di scrivere lì alcuni articoli nel 1956-1957: ancora su Scialoja, poi sullo scultore inglese Lynn Chadwick, sugli italiani Ettore Colla e Mirko, sui pittori americani Kline, Pollock e De Kooning – di cui tratterà anche la sorella. A proposito di questi ultimi, il suo stile critico narrativo e costruito per immagini porta all’attenzione i legami culturali in seguito ripresi nel mestiere di traduttrice e scrittrice:

L’intonaco bianco di una casa costruita a metà e rimasta al sole e ridiventata sostanza. Non il bianco all’infinito di Mondrian, illimpidito e intero, ma colore, superficie tangibile, rovente, con gli strappi, le raschiature della carta vetrata, le bolle tese come garza, le sbavature di un colore anteriore che risale, uno strato di prima rimasto intatto sotto la sabbia. Spazio e luce della materia. E nella materia il segno, la volontà drammatica della forma che non si chiude ma sgorga, si puntella e cade, si sforza in grandi correnti parallele. Il gesto contro la luce. Il nero dentro il bianco. La calligrafia ridondante e disperata sul versante del tempo. Le sbarre della finestra divelta. La scala tenuta con due mani nel vuoto. L’impalcatura ininterrotta. Il sigillo della cosa vivente. Finché il rapporto si inverte, e la luce è il nero, teso come una miccia, caldo come sangue, folgorante colore rappreso. Per essere esistito e ricordare.

Senza dubbio, a distanza di poco, ciò che trasforma il suo orizzonte è la traduzione de La mia Africa di Karen Blixen per Feltrinelli nel 1959 (a vent’anni dall’edizione danese, inglese e statunitense del 1937 e 1938 Out of Africa). Come ha asserito De Vivo parlando di Gabriella, è la famiglia “colta e talentuosa” il luogo in cui si ipotizza nascere l’apprendimento delle lingue straniere, all’interno della quale Lucia pare rielaborare quello strumento per farlo proprio in campo lavorativo.

Nel 1965 traduce e scrive un’introduzione a Erewhon e Ritorno a Erewhon di Simon Butler (1965).

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta iniziano le prime collaborazioni cinematografiche, non sempre soddisfacenti, come indica la prosecuzione della citazione a inizio articolo: “caddi, o meglio precipitai di colpo sul selciato corporalissimo di una scrittura per il cinema spinta da un propellente tanto casuale quanto inderogabile: la necessità […] economica”.

Per Zeffirelli firma la sceneggiatura di Camping (1958) e viene chiamata a partecipare da Mauro Bolognini come co-autrice di alcuni suoi film. Tuttavia, una svolta arriva probabilmente con Incompreso (1966) di Luigi Comencini. Si espone in un ambiente a prevalenza maschile rivelando le proprie capacità, che le faranno ottenere la stima di molti colleghi e, purtroppo, la disistima di altri.

Il lavoro per la tv sarà, da dopo Comencini, più intenso e specialmente legato a Gianfranco Mingozzi. Il loro sodalizio spicca come uno tra i più longevi e sottovalutati della storia del cinema, per la qualità del lavoro di entrambi. Insieme a lui, lei scrive la mini-serie per la tv Gli ultimi tre giorni del 1977 dedicata all’anarchico Anteo Zamboni, che fallì un attentato ai danni di Benito Mussolini e fu linciato dagli squadristi fascisti nel 1926. Passa poi ad altri soggetti e sceneggiature che combinano mondo della tv e del cinema, tra cui La vela incantata (1982) e L’appassionata (1989), che ha come protagonista Piera Degli Esposti nel ruolo di Gilberta. Lucia inizia a gravitare in un ambito talvolta legato a prodotti più commerciali; il suo è un successo in luce e controluce. Per questo motivo dichiarava lei stessa, ancora nel 1986: “Impreparata all’impatto divenni, a detta di qualcuno che in precedenza mi aveva chiamata poeta, l’ultima degli sceneggiatori”. Nonostante la fama vacillasse, non mancava di intraprendere direzioni diverse e personali, sostenendo con convinzione la possibilità di inserire, nel proprio lavoro, qualcosa di sé.

Nel 1978 firmerà la prefazione a Tutti i racconti di Katherine Mansfield (Adelphi), volume che vedeva tra i traduttori anche Cristina Campo e Giacomo Debenedetti. Nel 1980 tradurrà invece una selezione di racconti di Djuna Barnes che apparve con il titolo La passione (sempre per Adelphi); quello stile “esigente, solitario e tensivo” sarà adottato dalla Demby negli anni a venire.

Gli anni Settanta diventano un momento propizio anche per la pubblicazione dei suoi libri. Scritto nel 1965 e frutto di un’esperienza autobiografica ossia un anno trascorso a New York, Donna che dorme esce nel 1973 (Cooperativa Prove 10). Con La lezione di violino (Adelphi, 1977) – che fu ridotto anche per il teatro – sperimenta invece la forma-diario narrando la vicenda di orfanelle in un collegio alle prese con la scoperta della “doppiezza dell’innocenza”. L’icona. Racconti (Edizioni delle donne, 1980) e Allegro espressivo (Bastogi, 1984) segnalano invece un interesse editoriale cercato o mosso verso di lei da case editrici che sono nate in seno al movimento femminista.

La sua scrittura è caratterizzata in maggior misura dalla forma breve e da un certo gusto per i personaggi femminili tra realtà e “limbo, al di là della storia”, come si riconosce dall’incipit del racconto Metamorfosi (da L’icona, p. 29):

Non si somigliavano eppure avevano qualcosa in comune. La madre era di media statura, grassottella, con un viso pieno di buona volontà e di fiducia: il viso di chi sa godere ogni piccolo fatto del vivere con curiosità e miracolosa energia. Fatti che per lei, nell’arco sempre uguale e sempre nuovo del giorno, si moltiplicavano e si espandevano dalla case alle amicizie, al lavoro – un lavoro libero, volante, come diceva lei, cioè ricerca, ripristino ed eventualmente arredamento di appartamenti nel centro storico della sua casa fuori città, intorno alla sua unica figlia.
La figlia era un po’ più alta di lei, pallida e sottile, col viso allungato e gli occhi pieni d’ansia, tristi. Aveva diciassette anni e passava il suo tempo fra i libri, ma non riusciva a compiere gli studi perché aveva sempre la febbre, una febbre che la stremava ma di cui non riusciva a stabilire l’origine.

Alcuni suoi racconti inediti saranno favorevolmente accolti in riviste femministe tra cui «EFFE», sulla quale, nel marzo 1982, pubblica Il lungo solco. Nel 1985 esce invece Jeanne: la «mite» compagna di Modigliani (Bastogi), in cui indirizza di nuovo lo sguardo alla storia dell’arte, che ha formato un primo nucleo d’indagine prezioso, ma anche alla ricerca biografica con taglio prosastico. Il romanzo narra la vicenda drammatica della devozione di Jeanne al compagno pittore “senza nessuna sopraffazione vetero-femminista”, come recita la quarta a firma dell’amica Adele Cambria.

La partecipazione alla vita pubblica si manifesta sotto diverse altre forme. Ad esempio, nel 1985 è tra le finaliste del Premio Rapallo prima edizione, dove si classificherà terza con Allegro espressivo – seconda fu Anna Maria Ortese con Il treno russo (Pellicanolibri). Nel 1986, invece, è nella giuria della terza edizione del Premio Donna-Città di Roma insieme a molte altre figure del mondo culturale romano tra cui: Emanuela Andreoni, Natalia Aspesi, Benedetta Craveri, Luce d’Eramo, Armanda Guiducci, Giuliana Morandini, Daniela Pasti, Mimì Zorzi. Il premio lanciò, nella sezione editi Annarita Buttafuoco con Le maruccine mentre, per gli inediti, si fece notare Laura Canciani con Da questi occhi. Nello stesso anno Mimma De Leo include l’autrice del volume Autrici italiane. Catalogo ragionato dei libri di narrativa, poesia, saggistica 1945-1985: si tratta di un compendio di voci raccolte grazie al sostegno alla pubblicazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri di allora, con a capo Bettino Craxi e con Presidente della Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna la socialista Elena Marinucci, vicina in quegli anni alle donne e alle loro battaglie.

Assimilata a un certo ambiente del femminismo schierato – sebbene circa la sua posizione non si abbiano ulteriori attestazioni –, ancora nel 1986 Lucia Drudi interviene nell’almanacco di Firmato Donna, iniziativa romana che promuoveva il libro e la lettura dal punto di vista femminile. Lo fa con un testo che squadra, da ogni lato, la sua professione nel cinema, di cui si è già avuto qualche assaggio. Il titolo del suo articolo è Scrivere per il cinema vuol dire…:

Scrivere per il cinema significa narrare per immagini, acuire la carica simbolica del visivo, orchestrarlo. Narrare per il pubblico e le sue tradizioni liturgiche (riso/paura/pianto), narrare su commissione e in contrasto/armonia con l’equipe degli altri sceneggiatori. Narrare evitando ogni sacca di inerzia, ogni caduta d’ascolto e d’attenzione. Narrare al presente anche quando si opera sul flash-back, cioè sul passato e sul futuro immaginale. (In questo senso – di fissare il presente come unica superficie – la letteratura ha imparato e continuerà a imparare qualcosa dal cinema).

Tra il 1987 e il 1988 co-firma con Marco Leto e Lea Massari la sceneggiatura di Una donna spezzata, film tv tratto dal famoso libro di Simone De Beauvoir con la Massari protagonista, che andò in onda sulla Rai nel 1989 in due puntate. Qui si rinnova per lei lo sguardo rivolto ad autrici, con un taglio ancora una volta televisivo e più generalista.

Dallo stesso anno farà parte di un “Gruppo di scrittura” riunito da Elena Gianini Belotti che comprendeva, tra le più attive, Adele Cambria, Goliarda Sapienza e Simona Weller. La Demby è rilanciata in quel momento dal nuovo successo legato al film La mia Africa, prima che un ictus la costringa a interrompere il suo lavoro.

Nel 1991 un suo racconto dal titolo Ennallumini la noche dedicato al figlio è compreso in una strenna della rivista «Tuttestorie» diretta da Maria Rosa Cutrufelli. In quegli anni Lucia vive in provincia di Firenze.
Scompare nel 1995.

Fonti, risorse bibliografiche, siti

Donna che dorme, Roma, Cooperativa Prove 10, 1973

La lezione di violino, Milano, Adelphi, 1977

L’icona. Racconti, Milano, Edizioni delle donne, 1980

Allegro espressivo, Foggia, Bastogi, 1984

Jeanne: la «mite» compagna di Modigliani, Foggia, Bastogi, 1985

La mia Africa di Karen Blixen è ancora in circolazione con la sua traduzione.

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Alessandra Trevisan

Alessandra Trevisan (1987) sta completando un dottorato in Italianistica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si occupa dell’opera di Goliarda Sapienza cui ha dedicato una monografia, Una voce intertestuale (La Vita Felice 2016), e vari altri contributi in volumi, riviste, a convegni e in occasione di partecipazioni pubbliche. Ha scritto articoli su Milena Milani, Clara Sereni e sulla poeta “performativa” Silvia Salvagnini, con cui condivide un progetto aperto tra poesia e musiche di Nico de Giosa.
Sperimentatrice vocale, musicista, lyricist e performer, partecipa a progetti di electronicgirls e a Vertical Waves Project, tra danza verticale e suono. Collabora con i musicisti elettronici Solar Plex ed Enrico Coniglio. Cura la comunicazione di Live Arts Cultures, scrive per il lit-blog «Poetarum Silva» e fa parte di quarantaduelinee | circolazione culturale di Mogliano Veneto.

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