La breve vita di Loreta non fu facile fin dall’inizio. Il padre abbandonò la famiglia prima che lei nascesse; la madre si trovò a crescere da sola due bambine e un maschietto. Loreta, mentre frequentava un corso professionale per contabile, lavorava presso una fabbrica di abbigliamento, la Dovana. Cantava in un coro, come tutti in Lituania e nelle altre Repubbliche Baltiche, e suonava il pianoforte con la sorella Renata, fisarmonicista, in duo o in gruppi musicali folkloristici. Viveva in un quartiere molto povero, da cui cercò di fuggire fidanzandosi con un uomo più grande di lei, che pensava potesse offrirle una vita più decorosa.
Loreta non si occupò di politica fino al giorno in cui, in fabbrica, avvenne qualcosa che le cambiò il corso della sua esistenza. Nella fabbrica lavoravano donne sia lituane che russe: secondo un accordo sempre rispettato, per alleviare la monotonia del lavoro si ascoltava musica, per un’ora russa e per un’ora lituana. Un giorno una donna russa se ne uscì con un “perché dobbiamo ascoltare quella lingua da cani?”; l’offesa indusse Loreta, che fino a quel momento non si era mai occupata di politica, a unirsi alla protesta che il 23 agosto diede vita alla catena umana di estoni, lettoni e lituani che chiedevano l’indipendenza dall’Unione Sovietica: seicento chilometri lungo la Via Baltica, da Vilnius a Tallinn passando per Riga.
La rivolta antisovietica passerà alla storia come la “rivolta cantata”, perché proprio la tradizionale passione per il canto a cappella unisce da sempre questi tre popoli baltici, insieme al fatto di essere stati oggetto di continue invasioni da parte di altri popoli nel corso di tutta la loro storia.
Il 24 febbraio 1990 si svolsero le prime elezioni libere e i lituani scelsero come presidente del Parlamento e dell’Assemblea costituente Vytautas Landsbergis, famoso pianista e musicologo, che l’11 marzo proclamò l’indipendenza e chiese il ritiro delle truppe sovietiche. Il 7 gennaio 1991 i russi fecero irruzione nel Centro della Stampa di Vilnius; il giovane Vitas Luksys soffiò con un narghilè dell’acqua contro i soldati, ricevendo un colpo di pistola in testa da un colonnello. La scena fu ripresa da un giornalista norvegese e fece il giro del mondo. Landsbergis ebbe l’idea di trasmettere ventiquattro ore su ventiquattro la manifestazione e invitò i cittadini a difendere il Parlamento e la Torre della Televisione.
Nella notte tra il 12 e il 13 gennaio, in quella che i lituani denominarono “la domenica di sangue”, in seguito alla repressione delle proteste diffusesi in tutto il paese morirono quindici persone, centinaia furono i feriti. Loreta finì con una gamba sotto un cingolato sovietico nei pressi della Torre; trasportata in ospedale, morì dopo quattro ore di inutili tentativi dei medici di salvarle la vita. Si narra che le ultime parole pronunciate dalla ragazza prima di morire, “Potrò ancora sposarmi? Potrò ballare alle mie nozze?”, ripetuta più volte dalla TV lituana, abbiano indotto Michail Gorbacov a ritirare le truppe sovietiche dal piccolo stato baltico.
La stampa internazionale diede poco spazio a questi eventi, a causa della crisi irachena che sfociò nei bombardamenti su Bagdad e fece temere una terza guerra mondiale e una nuova Hiroshima; dopo la domenica di sangue, le vicende del popolo lituano finirono in secondo piano, e vennero trattate quasi esclusivamente per le conseguenze che avrebbero potuto avere sulla perestrojka. I nomi di Loreta e dei suoi compagni non arrivarono alle prime pagine dei giornali.
Gorbacov ci tenne a precisare davanti al mondo intero di non avere ordinato l’attacco alla Torre, che ai meno giovani ricordò la primavera di Praga, quando, proprio come a Vilnius, i manifestanti difesero la propria libertà opponendosi coi loro corpi ai carri armati sovietici.