Qui non posso udire la voce del cuculo.
Qui l’albero non indosserà una mantella di neve,
ma qui all’ombra di questi pini
tutta la mia infanzia risorge alla vita.Lo scampanio degli aghi tanto tempo fa –
chiamano patria lo spazio della neve,
e il ghiaccio verdastro che incatena il fiume
lingua della poesia in una terra straniera.Forse solo gli uccelli migratori conoscono
quando sono sospesi tra la terra e il cielo
questo dolore di avere due patrie.Con voi sono stata piantata due volte,
con voi, pini, sono cresciuta,
le mie radici in due diverse terre.
I versi conclusivi, nelle due terzine, di questo famoso sonetto, Pino (‘Oren, nel ciclo Gli alberi, dalla raccolta Fulmine al mattino, 1955), riescono a condensare in modo mirabile e suggestivo la condizione dell’autrice sospesa fra due patrie, fra la patria nativa e la patria adottiva, condizione che ne ha caratterizzato la vita e anche tutta l’opera. Lea Goldberg è considerata infatti la madre della moderna poesia ebraica, ma è stata anche traduttrice prolifica e attenta (dal russo, tedesco, italiano, greco, inglese e francese), originale scrittrice di testi per l’infanzia (più di un centinaio fra poesia e prosa), mentre il suo unico romanzo Ed è la luce del 1946 è subito entrato nel canone della narrativa ebraica. È forse una delle ultime figure di intellettuale, fra le due guerre, che si pone al crocevia fra diverse tradizioni culturali, e non rifiuta, anzi approfondisce in senso personale l’esperienza della diaspora e il multiculturalismo.
Nata in una famiglia ebrea lituana a Königsberg, all’epoca in Prussia Orientale, oggi in Russia, Lea Goldberg trascorre l’infanzia a Kovno (Kaunas), in Lituania e a Saratov in Russia. Ritornata in Lituania dopo gli anni della Prima guerra mondiale, si diploma al Ginnasio ebraico di Kovno (1928) e prosegue gli studi all’università lituana (Semitistica e tedesco), poi a Berlino e infine a Bonn, dove consegue il dottorato in studi semitici sul Targum Samaritano del Pentateuco (1933). Diventa allora professoressa di letteratura a Raseiniai, ma nel 1935 decide di emigrare nella Palestina del Mandato britannico; l’anno seguente, la raggiunge la madre (le due vivono a Tel Aviv, al 15 di via Arnon), Lea lavora come consulente letterario del teatro nazionale Habima e come redattrice per Hapoalim Sifriat («Biblioteca dei lavoratori»). A Tel Aviv aderisce al gruppo Yachdav, insieme ai poeti Nathan Altermann (1910-1970) e Avraham Shlonski (1900-1973) – la scuola modernista, di cui Shlonski era capofila e a cui tuttavia Lea partecipa in modo originale e personale: il ‘moderno’ per lei infatti non si pone in contrapposizione al ‘tradizionale’ o al ‘classico’ e il passato è sempre costantemente ‘presente’, non in semplice qualità di risorsa tematica, culturale, o come memoria, ma come fonte inesauribile di vita, di fecondità e di ricchezza. È a Tel Aviv che pubblica la sua prima raccolta di poesie, in ebraico, Anelli di fumo.
Dal 1927 Lea Goldberg aveva abbandonato il russo come lingua della poesia (in cui aveva scritto i primi versi) e adottato l’ebraico, che tuttavia non considerava come la lingua ‘sacra’ della rivelazione divina, ma come lingua ‘moderna’, viva, al pari delle altre, capace di esprimere tutta la gamma dei sentimenti, anche di contraddizione, dolore e nostalgia, personali e collettivi e la sua visione del mondo. La sua poesia – come la lingua – è infatti permeata dalla poesia europea classica e moderna: i simbolisti russi, prima di tutto, Aleksandr Blok e Osip Madel’štam, i drammi di Ibsen (che traduce) e poi la poesia italiana, che conosce bene e traduce, come Petrarca e Dante, fondendosi a un registro biblico che non fornisce semplici immagini di repertorio, ma originali connessioni alla contemporaneità (come per esempio il corvo della poesia Tel Aviv 1935 che ricorda l’altro, inviato da Noè ad avvistare le terre asciutte: «I pali sui terrazzi delle case erano allora/ come i pali della nave di Colombo/ e ogni corvo che si appollaiava sul pinnacolo, annunciava una terra asciutta differente»: Francesco Bianchi, Fra il mare e il cielo: Tel Aviv e Gerusalemme nella poesia di Lea Goldberg, in «Orientalia Parthenopea», 14, 2014, p. 4). La profonda e lucida coscienza della ‘molteplicità’ delle tradizioni, delle culture cui sente di appartenere, è certo un tema chiave della sua produzione e della sua attività intellettuale, così come il dialogo costante fra il passato – e la memoria – e il presente, così come espresso nella poesia conclusiva del breve ciclo dedicato a Tel Aviv pubblicato nel 1962:
«Il viaggio più breve/ Il viaggio più breve è quello lungo gli anni. La luce non è ancora/ passata. La casa crollò. Il muro si mosse./ Ed ecco stanno l’uno accanto agli altri come vicini/ le mie notti di oggi, i miei giorni di allora./ Che cosa si dissero? Siamo cambiati? Siamo invecchiati?/ Il viaggio più breve è quello dentro il passato./ Ti ricordi? Un mare freddo, due navi che si abbracciavano/ bambini in cima a una collina sollevavano torce -/ Siamo invecchiati? Siamo cambiati? Credimi: fino a domani ho ancora/ ore assai lunghe» (F. Bianchi, Fra il mare e il cielo, cit., pp. 11-12).
Nel 1954 si trasferisce a Gerusalemme e inizia a tenere corsi di letteratura all’Università Ebraica, diventa una delle promotrici della letteratura comparata come disciplina accademica in Israele e contribuisce alla costituzione del Dipartimento di Letteratura Comparata di cui è direttrice dal 1963 alla morte (1970).
Ha pubblicato, fra le altre, le raccolte di versi: Spiga dall’occhio verde (1940), Poesia nei villaggi (1942) Della mia vecchia casa (1944) Sulla fioritura (1948; premio «Ruppin» 1949 e «Israele» 1970), Fulmine al mattino (1955), Questa notte (1964) e il volume postumo I resti di una vita (1978, a cura di Tuvia Reubner). Molte delle sue poesie sono state musicate da Alex Wasserman, Yonatan Niv, Noa (Achinoam Nini), Galia Shargal. Fra tutte si può ricordare la bellissima poesia Davvero (At Telchi Basade) cantata da Chava Alberstein (melodia di Chim Barkani):
Davvero verranno ancora giorni di perdono e di grazia/ e camminerai nel campo come l’ingenuo viandante./ La pianta dei tuoi piedi nudi accarezzerà i fili d’erba,/ e le sommità delle spighe ti pungeranno, e la loro puntura sarà dolce,// oppure la pioggia ti sorprenderà, con la massa battente delle sue gocce/ sulle spalle, sul petto, sul collo e ti rinfrescherà il capo./ Davvero camminerai ancora nei campi e la quiete si diffonderà in te,/ respirerai il profumo del solco trovando pace a ogni respiro// vedrai il sole nello specchio della pozza dorata/ le cose e la vita saranno semplici e sarà permesso toccarle/ e sarà permesso, permesso, permesso amare./ Camminerai nei campi da sola,/ non ti brucerai nella vampa degli incendi,// in strade indurite dal terrore e dal sangue./ E con cuore sincero sarai di nuovo umile e docile/ come un filo d’erba, come un essere umano,/ cui è permesso, permesso, permesso amare. 1
- https://www.youtube.com/watch?v=NZCk7iXNdT8; la traduzione italiana in Poeti israeliani, a cura di A. Rathaus, Einaudi, Torino 2007. ^