Anche Lavinia Fontana, come la quasi totalità delle pittrici dal Rinascimento all’Ottocento, è figlia d’arte. Suo padre, Prospero, era infatti un affermato pittore bolognese e fu anche il suo primo maestro. Le donne, fino ad Ottocento inoltrato, non avevano accesso a botteghe, scuole, accademie o altri luoghi dove acquisire un’educazione artistica vera e propria e dunque l’apprendimento doveva necessariamente avvenire in ambito famigliare.
Prospero Fontana non era solo un pittore affermato, ma era anche un umanista, un uomo colto, raffinato e ben inserito nei circoli culturali della città. Frequentava intellettuali e pittori, tra cui Annibale e Ludovico Carracci, Lorenzo Sabbatini e il Giambologna. Nel suo studio abbondavano libri d’arte, copie di capolavori e oggetti antichi che collezionava. Tutto questo giocò un ruolo decisivo nella formazione di Lavinia, una donna perciò privilegiata perché ebbe accesso immediato e illimitato non solo alla pratica della pittura, ma anche al mondo della cultura, a differenza di quasi tutte le sue contemporanee.
Nel 1577 Lavinia sposò Giovanni Paolo Zappi, un pittore generalmente ritenuto di livello artistico mediocre, figlio di un ricco mercante di Imola, che fu funzionale alla carriera di Lavinia, diventandone di fatto l’agente. Il contratto matrimoniale specificava che i coniugi avrebbero dovuto vivere a Bologna, nella casa di Prospero Fontana, fino alla sua morte e che era dovere del marito occuparsi della gestione degli introiti che la moglie avesse ottenuto come “pittora”: Prospero, in sostanza, voleva essere sicuro che la figlia continuasse a praticare la sua arte anche da sposata, cosa per nulla automatica all’epoca, e questa imposizione al futuro genero è da leggersi come una sua attestazione di stima nei confronti della figlia.
Alla fine degli anni Ottanta del Cinquecento Lavinia Fontana Zappi era ormai una pittrice affermata che dipingeva prevalentemente ritratti dei notabili di Bologna, soprattutto delle nobildonne, per le quali farsi ritrarre dalla nota “pittora” divenne quasi una moda. La sua perizia di sapore fiammingo nel cogliere i dettagli, diretta figliazione del gusto per il collezionismo del padre da un lato e dell‘amore per la conoscenza enciclopedica tipico dei tempi, era ammirata da tutti.
Ma Lavinia Fontana precorse anche i tempi dal punto di vista gestionale e pratico della sua carriera. Seppe coltivare legami e contatti altolocati, scelse per i suoi figli padrini e madrine illustri, dimostrando astuzia e abilità nel consolidare la clientela e garantirsi la committenza e, per rinsaldare ulteriormente questi legami, addirittura battezzò alcune sue figlie con il nome delle sue committenti: Laudomia, come Laudomia Gozzadini, nobildonna bolognese ritratta con la famiglia in uno dei suoi dipinti più famosi, e Costanza, come Costanza Sforza, a sua volta ritratta dalla pittrice bolognese.
Nel 1583 la “pittora” ricevette la prima commissione pubblica, cioè quella di una pala d’altare per la cattedrale di Imola, città d’origine del marito. È la prima opera a soggetto religioso, per un committente religioso e destinata ad una chiesa, dipinta da una donna nella storia dell’arte occidentale. A questa ne seguirono altre, tra cui la pala d’altare destinata alla chiesa di Santa Sabina a Roma, raffigurante la Visione di San Giacinto, e la pala d’altare raffigurante il Martirio di Santo Stefano per la chiesa di San Paolo Fuori Le Mura a Roma (distrutta in un incendio nel 1823). Morto Prospero Fontana, i coniugi Zappi, liberi dal vincolo che li teneva a Bologna e dando finalmente ascolto all’incoraggiamento del cardinal Bernerio, sostenitore e committente di Lavinia, decisero di trasferirsi a Roma insieme ai quattro figli all’epoca ancora in vita.
Qui Lavinia Fontana godette di un periodo particolarmente brillante dal punto di vista professionale. Del resto, già quando abitava a Bologna aveva intessuto una rete di conoscenze e committenze a Roma e dunque si inserì molto velocemente quando vi si trasferì. La sua fama è attestata dalla medaglia commemorativa coniata in suo onore nel 1611 e dal commento dell’autorevole storico dell’arte Giovanni Baglione, che non poté esimersi dallo scrivere, con una certa condiscendenza:
“Venne ella a Roma nel pontificato di Clemente VIII e per diversi particolari molto operò, e nel rassomigliare i volti altrui, qui fece gran profitto, e ritrasse la maggior parte delle dame a Roma e spetialmente le Signore Principesse e anche molti Signori Principi, e Cardinali onde gran fama e credito ne acquistò, e per esser una Donna, in questa sorte di pittura, assai bene si portava”.1
A Roma lavorò sia per committenti romani, sia di altre città, che le affidavano incarichi a distanza, anzi, la sua attività era talmente intensa che dovette addirittura rifiutare molti lavori. Ma a Roma morì la figlia Laudomia appena quattordicenne e questo velò di tristezza i successi della maturità. Negli ultimi anni la pittrice fu anche afflitta dall’artrite che le rese doloroso l’esercizio della pittura.
L’ultima sua opera, eseguita a Roma, è il primo nudo femminile per mano di una donna nell’arte occidentale. Minerva nell’atto di vestirsi (olio su tela, 258 X 190 cm) fu commissionato da Scipione Borghese un anno prima della morte della pittrice. Il dipinto si discosta dall’iconografia tradizionale, anzi la sovverte completamente, a testimoniare l’originalità dello sguardo femminile nell’arte. Lavinia ci offre infatti il ritratto di una giovane donna vista di profilo e in movimento. Non dunque un corpo sensuale, una bellezza inerte che esiste in funzione di chi la contempla, ma una dea-ragazza agile, longilinea e sbarazzina che ha appena abbandonato le armi, lo scudo e l’elmo, e che sta per rivestirsi di abiti borghesi. Un nudo che è naturalezza, femminilità senza fronzoli, la donna come persona sotto la veste, l’orpello e il simbolo, in un momento qualsiasi della sua intimità.
Lavinia Fontana è la donna artista rinascimentale di cui sopravvivono più opere in assoluto e lo stesso fatto che molte sue tele siano rintracciabili dimostra quanto la committenza tenesse in considerazione i suoi lavori. Libera, ambiziosa, desiderosa di cimentarsi in tutti i generi di pittura, anche quelli preclusi alle donne, fu, indubbiamente, anche instancabile e tenace, mantenendo un volume di lavoro altissimo nonostante le undici gravidanze portate a termine.
Fu sepolta nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva, a Roma, ma la lastra tombale è stata successivamente rimossa.
- Baglione Giovanni, Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti, Roma MDCXLII, Ristampa: Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1995, pag. 143. ^