«Obiettività scientifica e partecipazione affettuosa, lucidità di analisi e impegno militante»[1].La storia di Laura Conti racconta con la molteplicità del suo impegno l’unità di una visione attenta e partecipe in cui non hanno molto significato le separazioni tra privato e politico, poesia e scienza, individuo e ambiente, natura e cultura. La concretezza con cui ha lavorato ne fanno un riferimento politico ed etico utile e necessario ai nostri tempi.
Laura Conti da piccola visse a Trieste, poi a Verona e infine a Milano, che considerò sempre la sua città. I suoi genitori erano stati costretti ad abbandonare Trieste in seguito all’impegno antifascista dei genitori, che avevano perso la propria azienda commerciale. A Milano la famiglia avrebbe avuto una vita dura, isolata, senza contatti: «la mia divenne una famiglia che si opponeva al mondo, disperata e molto sola»[2].
Sulla sua educazione resta una sua testimonianza diretta: «in casa non si occupavano di spiegarmi le cose: avevo tutti i libri a mia disposizione, non avevo che da attingere agli scaffali, liberamente, prima ancora di andare a scuola». Ma probabilmente fu proprio questa modalità ad abituarla alla ricerca autonoma, alla riflessione, alla libertà.
Come molte donne, nella prima giovinezza Laura costruì la propria immagine per differenza, ripensando alle scelte di sua madre: «mia madre era maestra e rinunciò al suo lavoro adattandosi al modello di mio padre che, coraggioso e onesto intellettualmente, era tuttavia un tiranno della peggior specie. Lei era una meridionale succuba del modo tradizionale di concepire la famiglia. Però soffriva e io lo avvertivo…»
Proprio per questo Laura si rese molto presto conto che i ragazzi avevano diversi modelli cui ispirarsi, ma che quello proposto alle donne era prevalentemente quello della casalinga-madre, che a lei risultava estraneo. Forse per questo ebbe una vita ricca di amicizie, intellettualmente, professionalmente e affettivamente importanti, ma non costruì una famiglia, probabilmente anche per il dolore seguito alla perdita di Armando Sacchetta, divenuto suo compagno nel lager di Bolzano e morto pochi giorni dopo la Liberazione in seguito all’emorragia seguita a un intervento chirurgico effettuato nel tentativo di arrestare una cancrena.
D’altra parte lei stessa aveva scritto: «pensavo che mi sarei fatta una vita mia, eventualmente con dei figli, ma priva dei legami coniugali che mi facevano orrore. Così è stato e se i figli non sono venuti, non si è trattato di una mia scelta».
Quando a scuola le regalarono una biografia di Maria Curie, pensò di aver trovato un modello che le si adattava meglio: «non è escluso che anche di qui sia nata la mia passione per le scienze».
Laura si iscrisse alla facoltà di medicina e nel 1944 entrò nelle file della Resistenza, aderendo al Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà. Ebbe il rischioso incarico di fare propaganda presso le caserme. «Avevo molta paura ma al contempo avevo la sensazione che il mondo fosse troppo piccolo per albergare i nazisti e me, che fosse persino necessario morire, perché se i nazisti avessero trionfato, il mondo non avrebbe più avuto attrattive». Venne arrestata già nello stesso 1944 e, dopo una breve detenzione nel carcere di San Vittore a Milano, fu trasferita nel Campo di transito di Bolzano, dove rimase fino alla fine della guerra.
Questa esperienza le avrebbe suggerito un’opera narrativa, La condizione sperimentale, scritta nel 1965 in cui ripercorre la sua esperienza nella Resistenza e nel Campo di transito di Bolzano.
L’esperienza fatta l’avrebbe indotta anche a riprendere la riflessione sul ruolo femminile, dopo aver constatato la subalternità al modello tradizionale di molte delle donne che avevano condiviso la sua esperienza di detenzione. Donne che avevano scelto di lottare per un mondo nel quale gli uomini vivessero un rapporto democratico, senza che ciò trasformasse la subalternità delle donne.
La scrittura sarà un altro dei tratti costanti della vita di Laura Conti. Prima di La condizione sperimentale aveva già scritto Cecilia e le streghe, sua opera prima, con cui nel 1963 aveva vinto il premio Pozzale. Il romanzo, quasi un thriller scritto con grande finezza per le ambientazione e gli stati d’animo di cui restituisce la potenza, soprattutto nei vuoti impossibili da descrivere, prende le mosse da un misterioso incontro fra due donne, nelle strade deserte di Milano in una sera di mezz’agosto e affronta con toni poetici i temi della malattia, della morte, del dolore, della fede e dell’eutanasia, affrontando pienamente le pieghe del rapporto fra medico e paziente.
Alle opere narrative si sarebbero aggiunti nel tempo molti saggi, che documentano l’intensa attività di divulgatrice scientifica di Laura Conti.
Finita la guerra, Laura Conti si specializzò in ortopedia e affiancò la professione di medico con l’attività politica e l’impegno culturale.
Si iscrisse dapprima allo PSIUP, cui aderì fino al 1951, quindi al PCI e tra il 1960 e il 1970 fu consigliera alla Provincia di Milano, nel decennio successivo fu consigliera alla Regione Lombardia e tra il 1987 e il 1992 fu eletta alla Camera dei Deputati.
Non ebbe mai alcuna remora a prendere posizioni contrarie a quelle ufficiali del partito in cui militava, come avvenne per esempio nella questione del nucleare, decisamente avversato, in contrasto con quanto sostenuto dal PCI.
Si avvicinò alle scienze biologiche e all’ecologia quando le questioni ambientali non erano per nulla nell’agenda politica istituzionale. Il suo approccio a questi temi fu di grande originalità: con grande anticipo sulle riflessioni circa la “sostenibilità” ambientale e sociale delle scelte industriali, economiche e politiche, Laura pose come primaria la relazione fra politica e ricerca tecnologica e scientifica.
Frequentò fin dagli inizi del 1970 “Medicina democratica”, il centro di controinformazione sulla salute e sulla nocività in fabbrica fondato da Giulio Maccacaro. Intorno alla rivista «Sapere» si riunivano scienziati e intellettuali che cominciavano a tessere i primi collegamenti tra posto di lavoro e diritto alla salute, tra economia e diritto all’ambiente.
Il metodo che Laura Conti adottava nel lavoro politico richiedeva l’analisi dei problemi ambientali, condotta attraverso la valutazione di tutta la documentazione disponibile, quindi il coinvolgimento della popolazione nella ricerca di una soluzione che fosse scientificamente efficace, ma anche socialmente accettata. Adottò questo approccio anche nel 1976 durante l’emergenza della nube tossica sviluppatasi a Seveso dagli impianti Icmesa.
Seveso divenne per lei la dimostrazione paradigmatica degli errori nell’uso del territorio: «della mancanza di controlli pubblici contro lo strapotere degli interessi privati, dell’impotenza della pubblica amministrazione di un paese, pur industriale e civile, come l’Italia, di fronte a un disastro ecologico imprevisto, ma non imprevedibile».
Laura Conti ha fatto capire agli italiani che, oltre all’ecologia delle piante e degli uccelli, conta anche quella delle fabbriche, dei lavoratori, delle periferie urbane[3]. Divenne così una figura chiave del nascente movimento ambientalista italiano. Non semplificò mai una materia di per sé complessa e articolata, ma tenne sempre come punto fisso un principio semplice: per occuparsi di politica ambientale è necessario accostare alla sensibilità sociale il sapere scientifico.
Ancora una volta l’esperienza vissuta le ispirò un’opera letteraria Una lepre con la faccia da bambina (1978) che tratta la crisi sociale e di valori che il dramma ecologico dell’Icmesa aveva innescato nella comunità della Brianza. Per essere pienamente apprezzata questa storia dovrebbe essere letta insieme al saggio Visto da Seveso, cronaca rigorosa degli eventi. Queste due pubblicazioni – una narrazione e un saggio – illustrano emblematicamente le due facce dell’impegno di Laura sui temi ambientali e il suo più generale approccio con la realtà.
Dal 1984 la salute di Laura Conti cominciò a peggiorare ed ella decise di andare in pensione dalla sua professione di medico e di non accettare più cariche pubbliche: ma nel 1987 fu nuovamente eletta in Parlamento.
In tutto questo periodo, il suo impegno prioritario fu quello di diffondere la consapevolezza dei grandi problemi ambientali e di affermare l’urgenza di un’azione politica per risolverli. Fu il periodo del grande coinvolgimento nella Lega per l’ambiente.
Nel 1990 si consumò la sua rottura con la Lega per l’ambiente, ma non per questo Laura ridusse le proprie attività: convegni, lezioni, scrittura la impegnavano continuativamente, nonostante fosse affetta da una grave patologia cardiocircolatoria.Alla fine del 92 fu ricoverata a causa di un brusco peggioramento delle sue condizioni di salute, ma non appena ritornò a casa, si rimise al lavoro, benché rassicurasse gli amici dichiarando di aver ridotto le attività.
Morì il 25 maggio 1993, nel pieno della sua attività, mentre stava progettando un nuovo libro.
Attualmente i suoi libri e materiali personali d’archivio sono collocati nella Fondazione Micheletti di Brescia. A lei sono intitolate una scuola media di Buccinasco (Milano) e un premio di giornalismo ambientale. Due giorni di studio le sono stati dedicati a Roma, nell’ottobre 2011 dall’associazione Donne e scienza presso la Casa internazionale delle donne. il suo nome è stato inserito nel 2007 nel Famedio del cimitero monumentale di Milano.
NOTE
1. È Mario Spinella a usare questa formula parlando di lei: con lei Spinella fondò e diresse l’Associazione Gramsci. Laura Conti diresse anche la Casa della Cultura di Milano.
2. E. Scroppo, pag. 102. L’autore riporta un’intervista a Laura Conti. Quando non indicata altra fonte, le citazioni sono state tratte da questo volume.
3. Motivazione dell’assegnazione del premio Firenze-ecologia 1977.
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