Quello di maestra è stato, nel nuovo Stato post-unitario, uno dei pochi sbocchi occupazionali consentiti alle donne, preferite non solo perché quel ruolo valorizzava la vocazione materna, considerata “naturale”, ma perché rappresentò un modo economicamente conveniente di affrontare il tema dell’istruzione obbligatoria: il loro stipendio era infatti decurtato di un terzo rispetto a quello dei colleghi uomini, e si riduceva inoltre ulteriormente se l’insegnamento avveniva nelle scuole rurali.
L’insegnamento rappresentò comunque, per molte donne italiane appartenenti in prevalenza alla piccola borghesia e in alcuni casi ai ceti popolari, sia la prima occasione di proseguire gli studi oltre la scuola elementare sia un’inedita opportunità di emancipazione, attraverso l’accesso a una autonomia economica e culturale. Ma in realtà le giovani maestre si trovarono spesso a insegnare in località isolate lontane dalle loro famiglie, confinate in aule indecenti, prive di materiale didattico, tra gente diffidente e ostile all’istruzione, che sottraeva i bambini al lavoro dei campi.
La vita di queste giovani donne era inoltre vincolata al rispetto di rigide regole di comportamento, pena il mancato rilascio da parte del Sindaco dell’attestato di moralità, necessario per insegnare.
Questo il contesto in cui si colloca la vicenda di Italia Donati.
Nata a Cintolese, nel comune toscano di Monsummano, era figlia di un modesto “granataio” , un fabbricante di spazzole. Il suo maestro, apprezzandone l’intelligenza, la volontà e la serietà e riconoscendo in lei un naturale talento per l’insegnamento, riuscì a convincere la famiglia a farla studiare privatamente per conseguire la “patente” di maestra. Cosa che la ragazza riuscì a fare, con grande impegno e sacrificio, circondata però dall’invidia e dalla diffidenza di fratelli e sorelle e di una comunità che considerava l’istruzione un lusso inconcepibile e la sua una colpevole ambizione.
Poco dopo, nel settembre del 1883, Italia accettava felice il suo primo incarico come insegnante a Porciano, un paesino nel comune di Lamporecchio, a una decina di chilometri da Cintolese, con l’orgoglio di poter contribuire, grazie al suo lavoro, all’economia famigliare.
La ragazza dovette innanzitutto presentarsi al Sindaco, perché in quegli anni – e fino alla legge Daneo- Credaro del 1911 che avocò allo Stato l’istituzione e il mantenimento delle scuole elementari – l’insegnamento era affidato ai Comuni, obbligati dalla legge Coppino del 1877 a istituire una scuola in ogni consistente frazione del loro territorio: il consiglio comunale deliberava le assunzioni, ma in pratica le maestre venivano scelte dai sindaci, che potevano rinnovare o disdire gli incarichi. Il sindaco in questione era Raffaello Torrigiani, ricco possidente con fama di donnaiolo impenitente, che di fatto la costrinse a non cercarsi una locazione in affitto, ma a essere ospitata in una dependance della villa – dove egli risiedeva insieme alla consorte Maddalena, all’amante Giulia e alle figlie che ambedue avevano avuto da lui – insistendo sul beneficio economico che questa scelta avrebbe rappresentato per le spese della giovane e quindi della famiglia.
Velatamente minacciata di un mancato rinnovo dell’incarico in caso di rifiuto, Italia accettò, pensando anche ai bisogni della sua famiglia, alla quale chiese, ma senza esito, che le affidassero una nipote da tenere con sé, per tutelarsi in qualche modo. Quando venne a conoscenza della vicenda di Vittoria Lastrucci, anch’essa maestra di Porciano e ospite in casa di Torrigiani, sottrattasi con la fuga a insistenti avances e, dopo varie vicende, licenziata, ebbe ancora più chiara la situazione senza uscita che le si prospettava. Italia oppose sempre un deciso rifiuto alle avances del sindaco, ma non poté rifiutarsi di salire nei giorni di festa sul suo calesse, insieme alla moglie e all’amante, e venne ben presto etichettata nel paese come la “terza donna” del sindaco.Quando lui iniziò a vantarsi con gli amici di averla baciata, lasciando intendere ciò che ne sarebbe facilmente seguito, la voce sulla dubbia moralità della maestra raggiunse anche Monsummano suscitando perplessità persino nella sua famiglia. Italia rispose gettandosi con passione e competenza nel lavoro e prodigandosi durante l’epidemia di tifo del 1884, andando di casa in casa a visitare i suoi scolari ammalati e a insegnare alle famiglie le necessarie nozioni di igiene che occorreva seguire. La situazione precipitò quando alla Magistratura di Pistoia giunse una denuncia anonima che accusava Italia di aver abortito, con la complicità del sindaco, che per questo fu costretto a dimettersi. Indagata dalla Procura del Re, la giovane reagì con fermezza alle accuse, arrivando anche a chiedere – senza peraltro che questa richiesta potesse essere accolta – che fossero effettuati accertamenti medici per dimostrare la sua illibatezza. Solo dopo questo episodio, riuscì finalmente a ottenere dalla famiglia di poter condurre con sé una nipote, a spostarsi in affitto in una casa vicina alla scuola e infine ad ottenere, per l’anno successivo, il trasferimento in un’altra scuola della zona, a Cecina. Vi arrivò, però, preceduta da una fama immeritata e la nuova comunità non celò la sua ostilità nei suoi confronti con insolenti allusioni, insinuazioni, e anche insulti aperti. Lettere anonime iniziarono ad attribuirle una nuova relazione, con il figlio del padrone di casa; e addirittura si diffuse la voce che fosse incinta di lui.
La sera del 31 maggio 1886 Italia scrisse un breve biglietto destinato ai genitori in cui si discolpava e si difendeva, e spiegava come il disonore che era sceso su di lei, che non aveva nessuna colpa, le rendeva impossibile continuare a vivere. Poi uscì, camminò nel buio fino alla gora del vecchio mulino ad acqua sul fiume Rimaggio, poco fuori dal paese, fermò i vestiti con due spille da balia per scongiurare l’umiliazione di essere ritrovata con le gambe scoperte, salì sul muretto del ponte e saltò. Un suicidio che non era però solo una resa, ma anche un atto d’ accusa. Al fratello Italiano infatti lasciò scritto: “sono innocentissima di tutte le accuse fattemi e la prova l’avrai, come l’avranno tutti, dopo la mia morte. A te, mio unico fratello, a te mi raccomando con tutto il cuore, e a mani giunte, di fare quello che occorrerà per far risorgere l’onore mio. Non ti spaventi la mia morte, ma ti tranquillizzi pensando che con quella ritorna l’onore della nostra famiglia. […]. Prendi il mio corpo cadavere, e dietro sezione e visita medico-sanitaria fai luce a questo mistero. Sia la mia innocenza giustificata”. Chiedeva, anche, di essere sepolta, se il trasporto non avesse comportato sacrifici troppo gravosi, nel paese natio e non a Porciano: “Chiedo questo perché le ragazze che mi hanno odiata e biasimata in vita non vengano a burlarsi ancora di me per la via del sepolcro”. All’autopsia, che certificò la sua innocenza, seguì il modesto funerale; ma, poiché la famiglia non poteva permettersi la spesa per il trasferimento, la salma fu sepolta nel paese tanto odiato e per di più nell’angolo più remoto del cimitero, vicino al muro di cinta, e con sulla croce solo le iniziali; infatti unicamente per estremo rispetto nei confronti della sua povera famiglia il prete rinunciò ad estrometterla, in quanto suicida, dalla terra consacrata. Fu la popolazione di Cintolese, quando apprese la vicenda, a indire una sottoscrizione per coprire le spese del trasporto della sua salma da quel paese che l’aveva spinta alla morte e tumularla nella sua terra natale: il 4 luglio fu celebrato un funerale solenne, con Carabinieri in alta uniforme, e una folla stimata in circa 20mila persone provenienti da numerosi paesi e città della Toscana.
Il «Corriere della Sera», cui il corrispondente da Pistoia aveva inviato un breve resoconto sull’accaduto, diede ampio risalto alla notizia del suicidio della maestra, promovendo un’inchiesta affidata al giornalista Carlo Paladini, che dedicò alla sua vicenda l’articolo Le sventure di Italia Donati. E a cura del quotidiano milanese, sulla sua tomba fu collocata un’elegante lapide di marmo nero con l’iscrizione in lettere dorate, in cui si leggeva: “A Italia Donati, maestra municipale a Porciano, bella quanto virtuosa, costretta da ignobile persecuzione a chiedere alla morte la pace e l’attestazione della sua onestà. Nata a Cintolese il 1° gennaio 1863, morta a Porciano il 1° giugno 1886. Per supremo suo desiderio il corpo fu trasportato qui da Porciano e fu posta questa memoria. A spese di pubblica sottoscrizione”.
Sull’eco del suo caso, Matilde Serao scrisse per il «Corriere di Roma» del 25 giugno 1886 un articolo dal titolo Come muoiono le maestre, in cui denunciava le misere condizioni in cui le insegnanti erano costrette a vivere e a lavorare e dava visibilità al caso di una giovane maestra che si era buttata dal campanile della chiesa per disperazione, di un’altra che si era avvelenata, di un’altra ancora che era morta di fame e di fatica tornando a piedi dalla famiglia e camminando digiuna per decine di chilometri, dopo il comune aveva chiuso la scuola per mancanza di fondi e di altri casi di storie drammatiche che avevano per protagoniste giovani maestre.
A Italia Donati è stata intitolata la scuola elementare di Cintolese e Elena Gianini Bellotti ha scritto sulla sua vicenda il bel romanzo Prima della quiete. Storia di Italia Donati.