Con la lunga presenza sulle scene l’attrice Giacinta Pezzana accompagnò la fase della unità dell’Italia fino alla Grande Guerra. Essa si identificò pienamente con il Paese unito: torinese per nascita, morì nel 1919 ad Aci Castello presso Catania, dove dimorò in prevalenza dal 1887.
Nel suo tempo i cronisti si sbizzarrirono a dare appellativi a Giacinta Pezzana. La si disse “petroliera”, o “petroleuse”, cioè “incendiaria”, perché urtava la borghesia, o “grande vagabonda”, perché irrequieta, insofferente al dominio, pronta a spostare domicilio e palcoscenico. Ma è difficile che un appellativo sia accettabile: la Pezzana, testimone e promotrice del dialogo fra l’arte scenica e la più generale cultura, ebbe un percorso complesso e duttile.
Sui primi passi, una nota del cronista Luigi Rasi ci conserva la dichiarazione della stessa Giacinta Pezzana: «Nata il 28 gennaio 1841 da Giovanni Pezzana, ricco negoziante di mobili, e da Carlotta Tubi», essa diceva, proseguendo con il desiderio di entrare nella Filodrammatica di Torino espresso nel 1857. Ne era stata respinta però dal “famigerato” avvocato Giuseppe Garberoglio «per mancanza di disposizioni per l’arte»: una valutazione certo ottusa.
La giovane sedicenne, che aveva nascosto ai genitori la sua attrazione per il teatro, trovò tuttavia la forza di confermare la sua vocazione. L’accolsero altri attori importanti, nei circoli di dichiarata fede politica mazziniana: non sappiamo come maturò in lei stessa tale orientamento ideale. I suoi maestri per la scena furono Giovanni Toselli, capocomico di una Compagnia che produceva teatro dialettale piemontese, già allievo dell’intellettuale-attore Gustavo Modena, e Carolina Gabusi Malfatti, figura nobile di risorgimentale, di cui proprio l’allieva scrisse l’elogio alla morte. Accanto alla Malfatti la Pezzana conobbe un manipolo di donne militanti più anziane di lei. Il gruppo comprendeva Giuditta Sidoli, la cospiratrice compagna di Mazzini,Laura Mantegazza, Sara Nathan e Giulia Calame, la moglie di Gustavo Modena. Nelle fasi successive la Pezzana fu anche ammiratrice di Garibaldi: “attrice garibaldina” è un altro degli appellativi. I circoli mazziniani furono vivaio importante di donne partecipi del Risorgimento.
Nella Pezzana la formazione mazziniana fu intima, non si diresse verso specifici ambiti politici, istituzionali o, tanto meno, cospirativi. La sua dedizione esclusiva fu infatti l’arte scenica. Tuttavia in questo campo come nelle relazioni di vita mostrò con chiarezza le sue convinzioni.
Di qui forse si era scatenata la faziosità di alcuni critici. Le fu imputato di aver fermato il repertorio alla Teresa Raquin di Émile Zola. È vero che lo straordinario successo della pièce a partire dal 1879, al Teatro dei Fiorentini di Napoli, indusse l’attrice a far proprio il personaggio, più volte riproposto: con modifiche però e accanto a molte altre scelte. A 74 anni, quando l’Italia si schierò nella Grande Guerra, la Pezzana fu diretta da Nino Martoglio a tradurre il personaggio per lo schermo cinematografico, unica prova nel nuovo medium per la Pezzana.
Vi furono storici più equilibrati: Luigi Rasi polemico con quei giudizi affermava che proprio la varietà era caratteristica della Pezzana. Essa, diceva, «non si atrofizzò», ed aggiungeva: «Oh! se tutti volessimo enumerare i lavori, in cui la Pezzana esercitò il suo fascino di grande artista ci bisognerebbe scrivere un libro». Per dare «un’idea ben chiara della morbidezza e vigorìa del suo talento» attraverso la “varietà” dei personaggi, erano ventuno quelli di cui faceva menzione particolare, senza essere esaustivo.
Giacinta Pezzana, diceva Rasi, spaziava dalla tragedia shakespeariana a quella neoclassica, come Maria Stuarda di Schiller o Medea di Legouvé, alla felice commedia di Goldoni, alla farsa come Il casino di campagna di Kotzebue, ai drammi sentimentali di Luigi Camoletti, alla tragedia storica italiana di Cossa, alla nuova commedia borghese di Ferrari e Giacometti, al dramma che andava ovunque sostituendo la tragedia, con autori come Scribe, Sardou, Dumas figlio.
La varietà corrispondeva ai bisogni profondi di Giacinta Pezzana anche negli effetti che otteneva dal corpo, le cui qualità erano infinite e perfino contraddittorie: per esempio nella voce era capace di melodia come di cavernosità, con diverse modulazioni dalla commedia alla tragedia.
Eleonora Duse , che, di diciassette anni più giovane, le fu accanto nell’apprendistato, si turbava e rifletteva sui gesti, sulle pause, sui balbettamenti, sui riti imprevisti che la Pezzana inscenava.
Raggiunta la piena maturità artistica, dopo il 1876 l’attrice si pose di fronte al pubblico in modo nuovo. La studiosa Giulia Tellini parla di «un modulo recitativo straniante e quasi brechtiano», che imponeva «una distanza critica fra attore e personaggio». Mentre a fine secolo la svolta borghese del Paese amplificava la grettezza e l’indifferenza del pubblico in teatro, la Pezzana lo spiazzava, ne provocava la riflessione. Più volte dimostrò di prestarsi a calcolati esperimenti: per toccare più corde espressive volle interpretare Amleto en travesti, durante la tournée del 1878 in America, davanti ad un pubblico che giudicava più disinibito di quello italiano. Nel 1905 rispose alla chiamata di Edouard Boutet al teatro Argentina di Roma, accettando di subordinarsi agli attori più giovani Ferruccio Garavaglia ed Evelina Paoli, nel tentativo di far decollare il “Teatro nazionale”. Era il grande mito inseguito dai più impegnati fra gli amanti del teatro, che Boutet, grande teorico, sperava di realizzare. Invece la disarmonia del gruppo spinse l’attrice a troncare l’esperimento.
La Pezzana si rendeva conto che cambiava la macchina del teatro: fuori d’Italia, infatti, già si stava definendo il teatro di regia. Non la convincevano i successi teatrali di D’Annunzio affidati a preziosismi, che a lei ricordavano il can can del “ballo Excelsior” con cui si era celebrato l’inizio del nuovo secolo. L’attrice percepiva che, esaurita la funzione del “grande attore”, la scelta appropriata per il teatro era la sobrietà, l’interiorizzazione, l’espansione dei silenzi.
Il suo intuito si era affinato nell’esercizio degli interessi culturali e di una cittadinanza vissuta a tutto tondo: Giacinta Pezzana, Artista e cittadina, titolava Paolina Schiff, giornalista impegnata nei movimenti di emancipazione, nel periodico «La donna», il 15 settembre 1884. Nelle scelte della vita non cercava alibi, radicale nel liberarsi delle convenzioni diffuse nel suo tempo. Nel 1863 si unì in matrimonio con Luigi Gualtieri, attore e autore allora apprezzato, già combattente nel ’48, poi dal 1882 insegnante di scuola a Sanremo. Da lui ebbe la figlia Ada. Separatisi nel 1883, la donna visse da allora fino al 1887 con l’attore Angelo Diligenti. Troncò la relazione quando verificò l’uomo opportunista, desideroso in realtà di piazzare la figlia Lina.
Giacinta Pezzana rompeva con le ipocrisie senza clamori, contando sulle proprie forze, sulla autonomia che l’arte le consentiva: solo in tarda vecchiaia, dal 1916, ebbe un sussidio concesso da un prefetto di Roma cultore di memorie piemontesi. Sapeva anche nutrire legami forti, duraturi, nell’ambito delle amicizie, ed alla fine anche in quello sentimentale, realizzandosi nella maturità accanto a Pasqualino Distefano, un garibaldino e repubblicano catanese, amico ritrovato nel 1886. Andata a vivere con lui nella provincia di Catania, l’unione fu salda per il resto della vita: «un essere selvaggio di carattere, ma buono più d’un angelo», scriveva all’amica Alessandrina Ravizza, come riferisce Laura Mariani.
La Pezzana visse in prevalenza da allora ad Aci Castello, continuando però le interruzioni e gli spostamenti, non meno mobile da vecchia di quanto era stata in gioventù. Nel 1873 si era avventurata in una lunga tournée attraverso Spagna, America, “Rumenia”, Russia, Egitto. Era stata ancora in America nel 1878. Nel 1880 era tornata in “Rumenia”, in Russia, in America.
Laura Mariani, che dal 1991 approfondisce la corrente dell’emancipazionismo nel teatro italiano, vi annovera la Pezzana, nei limiti però di una sintonia non dottrinaria. Cita fra le sue amicizie più salde documentate dagli epistolari, la più matura Giorgina Saffi, la coetanea Alessandrina Ravizza, la figlia adottiva di questa, Sima Pizzorno, la giovane Sibilla Aleramo.
Nel 1908 l’attrice seguì il 1° Congresso femminile nazionale celebrato a Roma, ma non vi trovò il clima giusto, sentendovi troppo di borghese e di istituzionale: «La Melegari, la Pigorini e la Bisi-Albini […] vorrebbero ricondurmi all’ovile, come pecorella (ma sono pecorona) smarrita», scriveva all’Aleramo in una lettera citata dalla Mariani (Frascati, 11 aprile 1908). In particolare, le sue convinzioni centrate molto più sull’umano che sul trascendente la separavano da certe sintesi di femminismo, per lei nazionalistiche, su cui corona e chiesa le sembravano imporre la tutela.
Nel 1904, ricostruisce la Mariani, la sezione romana dell’Unione femminile, animata da Anna Celli e Sibilla Aleramo, aveva promosso una forma di “andata al popolo” per l’alfabetizzazione nell’Agro Romano, in particolare per il riscatto dei “guitti”, cui Giacinta Pezzana partecipò con piena convinzione. Vi erano coinvolti numerosi intellettuali, da Giovanni Cena, allora compagno dell’Aleramo, alla Montessori, alla Duse, a Giacomo Balla. Dal 1904 al 1909 l’attrice torinese inseguì per questa via il sogno del “Teatro nazionale”, con un progetto che mirava a costituire un repertorio di testi appropriati. Li voleva vicini alla vita quotidiana, ma di orizzonte più elevato rispetto a quello delle cronache reali, di cui era protagonista ed emblema la “bojaccia”, cioè il coltello pronto ad essere sfoderato. La Pezzana ritrovava nell’esperimento il filo conduttore della sua vita, dipanato dal teatro piemontese e popolare di Toselli.
L’impresa fu un vero disastro, snobbata dal mondo del teatro, a cominciare dagli autori accreditati in romanesco, Sindici e Pascarella. I pochi giovani distintisi non raggiunsero il livello professionale, preferendo anzi rappresentare proprio quei filoni di cronaca da cui l’attrice voleva allontanarli.
Nel 1909, scritturata dalla Sanzi, la Pezzana riprese la via delle tournée. In Uruguay, dove la richiamava anche la difficoltà finanziaria della figlia, residente a Montevideo, realizzò un’altra scuola di recitazione, ancora una volta impegnandosi nel sogno di riscatto tramite il teatro. La generosità non era tanto ai suoi occhi un atto oblativo, quanto la realizzazione di sé. Certo era toccata dalla dura condizione, ai suoi tempi, di donne e bambini: ne sono documento anche alcune sue prove letterarie, la novella Piscinit, in dialetto milanese, il romanzo Maruzza.
Rimpatriò a causa della guerra. La Pezzana, come altri, sentì l’evento come conclusione del Risorgimento, prodigandosi negli spettacoli di beneficenza per le truppe. Negli anni estremi confermava intatto il bagaglio interiore di idealità serena e gioiosa con cui soleva rappresentarsi.
Se un appellativo vogliamo attribuire alla Pezzana, sarà quello che essa stessa si scelse, “Rondinella pellegrina”. Era il titolo di una canzone ispirata al Marco Visconti di Tommaso Grossi, dove un uomo imprigionato dal tiranno consolava la nostalgia nel dialogo con la rondine. Poi dal romanticismo era nata la società moderna, con le sue nuove angustie: Giacinta Pezzana si era resa conto dei nuovi ostacoli e di come per superarli occorresse slancio ideale.
Giacinta Pezzana
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Pezzana, Giacinta, in Treccani.it l'Enciclopedia Italiana
Luigi Rasi, Pezzana Gualtieri Giacinta, in I comici italiani, II, Bocca, Firenze, 1905, pp. 269-274
C. Antona Traversi, Le grandi attrici del tempo andato, Torino, Formica, 1929
P. Schiff, Giacinta Pezzana, Artista e cittadina, (profilo), in «La donna», 15 settembre 1884
Laura Mariani, Il tempo delle attrici. Emancipazionismo e teatro in Italia fra 800 e 900, Bologna, Editoriale Mongolfiera, 1991
V. Pandolfi, Antologia del grande attore, Bari, Laterza, 1954
Giulia Tellini, Medea da Adelaide Ristori a Giacinta Pezzana, 13 ottobre 2005, dal sito Drammaturgia.it
Referenze iconografiche: Giacinta Pezzana, foto di Mario Nunes Vais. Fonte: Collezione del Fondo Nunes Vais. Immagine in pubblico dominio.
Franca Bellucci
Nata a Empoli, nel 1947, è laureata in Lettere e in Storia ed è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si ricordano il libro Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano, Pacini, Ospedaletto-Pisa, 2008, nonché gli articoli: Costumi familiari e donne intorno al 1848. Un contributo dalle carte d’archivio conservate da Vincenzo Salvagnoli, in «Miscellanea Storica della Valdelsa» a. CXI, n.1-3 (gennaio-dicembre 2005), pp. 43-66; Oggetti e doni in esempi di creanza ottocentesca, in «Genesis. Rivista della Società italiana delle storiche» v/1 (2006), pp. 61-78; Forza e soavità nella scrittura politica di Gaetana Del Rosso Cotenna, in «Bollettino della Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato», n. 75 (dicembre 2008), pp. 385-415. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante, Edizioni dell’Erba, Fucecchio, 2002; Sodalizi. Axion to astikon. Due opere, Edizioni dell’Erba, Fucecchio, 2007; Libertà conferma estrema, Pietrasanta, 2011.