Scrivo come scrivo perché sono (non sebbene sia) cattolica. È un fatto, tanto vale dirlo a chiare lettere. Però sono una cattolica singolarmente dotata di coscienza moderna, della specie che Jung definisce astorica, solitaria e colpevole. 1
Una dichiarazione questa, senza orpelli e finzioni, in cui emerge la schietta e tenace personalità di Flannery O’Connor, una fra le più grandi narratrici americane, certamente della stessa levatura di altri grandi scrittori suoi connazionali, quali Faulkner, Steinbeck, Hemingway, Carver. Una donna che, nella sua breve vita scrisse due romanzi e trentadue racconti, permeati non solo del suo essere profondamente credente di una fede dogmatica e ortodossa, ma anche di quel clima rurale, rude e segregazionista tipico degli stati del sud degli USA.
Flannery, infatti, nasce il 25 marzo 1925 a Sannah, in Georgia, da genitori di origine irlandese. I primi anni della sua vita trascorrono serenamente, fino a quando nel 1937 viene diagnosticata al padre Edward una malattia ereditaria che colpisce il sistema immunitario: il lupus erythematosus. Per questa ragione gli O’Connor si trasferiscono a Milledgeville (già capitale della Georgia dal 1804 al 1868) in una fattoria di proprietà della famiglia della madre, Regina Cline. Qui frequenta la Peabody High School. Si dedica al disegno e alla scrittura (racconti e poesie che vengono pubblicati sulla rivista scolastica). Manifesta una singolare passione per oche, polli e galline, che addestra e a cui cuce vestiti, ma soprattutto per i pavoni, amore che l’accompagnerà per tutta la vita.
“Che merrrrrrraviglioso uccello!” mormorò il prete. […] L’uccello si era appollaiato sull’albero, tra il fogliame, e la coda pendeva davanti alla signora Shortley, tempestata di pianeti superbi, dagli occhi orlati di verde, ciascuno appoggiato a un sole che un momento è d’oro e un momento color salmone.2
Dopo la morte del padre avvenuta nel 1941, si iscrive al Georgia State College for Women. Nel 1945 vince una borsa di studio della State University of Iowa, seguendo i corsi di letteratura e arte e frequentando il laboratorio di scrittura sotto la guida di Paul Engle. Scrive quotidianamente lettere alla madre e un diario intimo, di preghiera. Non manca la lettura di grandi autori come Poe, Joyce, Faulkner, Kafka. Al termine del percorso di studi consegue il diploma del master con la tesi The Geranium a Collection of short stories.
Nel 1947 la madre eredita La Andalusia Farm, poco distante da Milledgeville con grandi appezzamenti di terra, campi e boschi. In questa residenza, da lei molto amata, comincia la stesura del primo romanzo Wise Blood. Elizabeth McKee diventa suo agente letterario.
Dopo aver rifiutato un’altra borsa di studio della Iowa, accoglie la proposta di trascorrere, nel 1948, due mesi alla Yaddo Foundation nella comunità di artisti di Saratoga Springs, dove vive un’esperienza arricchente insieme ad altri intellettuali. Tra questi stringe amicizia con Elizabeth Hardwick e Robert Lowell con cui si trasferisce a New York. Qui conosce l’editor della Harcourt, Brace and Co., Robert Giroux, e anche i coniugi Sally e Robert Fitzgerald, poeta, grecista e traduttore. Con i coniugi Fitzgerald nascerà una solida amicizia, tanto che la ospiteranno più volte nella loro dimora di campagna nel Connecticut.
È nel 1950 che la sua vita prende un nuovo corso: per Flannery, che ha 25 anni, è l’inizio del suo calvario, tra ricoveri in ospedale, trasfusioni, interventi e cure molto invasive. Tornata a Milledgeville, avverte, infatti, i primi sintomi della stessa malattia del padre, il lupus, che tuttavia le viene nascosta e presentata come artrite reumatoide. Malgrado il suo stato di salute, non abbandona la scrittura. In questo suo impegno di scrittrice segue un ferreo regime organizzativo: scrivere ogni giorno allo stesso orario, per lo stesso numero di ore.
Nella revisione del suo romanzo Wise Blood si avvale dell’aiuto della critica letteraria Caroline Gordon. Il libro viene pubblicato nel 1952 dalla Harcourt, Brace and Co., e trasposto in pellicola, nel 1979, da John Huston.
Alla scrittura di altri racconti e di un nuovo romanzo alterna la pittura, per lo più di soggetti della fattoria. Continua la frequentazione con i Fitzgerald da cui si reca più volte. Subisce nuovamente un attacco di lupus, dopo il quale le viene svelata la natura della sua malattia fino ad allora nascosta. Le massicce dosi di cortisone segnano profondamente il suo aspetto: perdita di capelli, gonfiore al volto. Anche le sue condizioni motorie peggiorano, tanto da vedersi costretta all’uso delle stampelle. Benché duramente provata dalla malattia, è sostenuta da una irriducibile fede; nello spirito si sente forte.
In un certo senso la malattia è un luogo più istruttivo di un lungo viaggio in Europa, e un luogo dove non trovi mai compagnia, dove nessuno ti può seguire. La malattia prima della morte è cosa quanto mai opportuna e chi non ci passa si perde una benedizione del Signore. 3
È in questi anni che acquista la prima coppia di pavoni che col tempo arriveranno a quaranta.
Il 1955 è un anno importante: pubblica la raccolta A Good Man Is Hard to Find e avvia una significativa corrispondenza, che durerà fino alla morte, con una sua ammiratrice di Atalanta, citata sempre con la lettera “A.”, rimasta sempre anonima e con cui non si incontrerà mai. Intrattiene relazioni epistolari anche con gli scrittori William Sessions, Elizabeth Bishop, Louise Abbot, Maryat Lee e col padre gesuita McCown.
Ormai affermata scrittrice, tra il 1956 e 1958 pubblica recensioni e tiene, di tanto in tanto, delle conferenze e lezioni di scrittura presso le Università in cui è invitata, tra le quali la University of Chicago. Prosegue incessante la scrittura del romanzo The Violent Bear it Away, seguita dal suo editor Robert Giroux4. In tv viene trasmesso l’adattamento di un suo racconto, che ha per protagonista Gene Kelly.
Nel 1958, con la madre e i Fitzgerald, compie un viaggio in Europa. Si reca a Roma dal papa, Pio XII; va a Parigi e in pellegrinaggio a Lourdes.
Prima della partenza, così scrive all’amica “A.”:
Ci vado come pellegrina, non come paziente. Non ho intenzione di fare nessun bagno. Sono di quelli che preferirebbero morire per la propria religione piuttosto che fare un bagno in suo nome. […] Al di là del fatto che la penitenza ci fa bene, sono convinta che la religione possa essere servita altrettanto bene a casa. Spero che questi 17 giorni passino in fretta. Ho anche paura di perdermi la covata delle oche.
Nel 1960 scrive un saggio su una bambina di 12 anni malata di cancro, A Memoir of Mary Ann.
A causa dell’uso eccessivo di steroidi, mirati a contenere l’aggravarsi del lupus, soffre di necrosi alle ossa, alla mandibola e all’anca. È spesso costretta a letto ma continua, con una straordinaria volontà e dedizione, a lavorare ad altri racconti, gli ultimi.
La sua prosa affascina per la linearità dello stile, per il realismo e l’immediatezza delle trame, apparentemente semplici, rotte poi, all’improvviso, con un registro ora grottesco e ironico, ora cinico e pungente, da eventi imprevedibili e inattesi, che conducono sempre a esiti folgoranti, inimmaginabili, quasi a sfidare e a sbaragliare le aspettative del lettore, coinvolgendolo e, al tempo stesso, destabilizzandolo. Sotto questa irruzione di fatti inattesi e di finali disorientanti, si celano metafore e rimandi simbolici, altri significati al di là di quello letterario. Un simbolismo che rinvia all’inesprimibile, all’inafferrabile, a quella sostanza di mistero che, secondo la O’Connor, tocca le vite, la realtà tutta, e di cui spesso non si coglie né la presenza né il valore. Questa sua visione, così fortemente radicata nelle sue opere, è riconducibile al rapporto tra la sua fede e la sua concezione artistica e letteraria. In un saggio presente in Mystery and Manners, afferma che il suo intento è quello di scandagliare la realtà per individuare un crocicchio, un crossroad, un punto nodale particolare dove, terreno e trascendentale, umano e divino, abbiano una congiunzione, un intreccio. Religione e arte, fede e letteratura, credere e scrivere non sono, dunque, distinte polarizzazioni, non sono dualità inconciliabili, ma aspetti fondanti, vissuti da lei in modo costantemente profondo, in una fusione indissolubile sia nella vita che nell’attività letteraria, per divenire, tramite le sue opere, testimonianza-strumento di evangelizzazione.
Voglio essere l’artista migliore che mi è possibile essere, al servizio di Dio.5
Ripudiando con consapevolezza ogni sorta di sentimentalismo, ogni cedimento languido ed emotivo, la O’Connor rappresenta sempre nei racconti una realtà concreta, tangibile, immediata, talvolta crudele. Mai che il disarmonico, il difetto, il vizio, la mediocrità, il tormento, la sofferenza umana vengano nascosti o mascherati.
Lui si chinò in avanti e le appoggiò le labbra all’orecchio.
“Fammi vedere dove si innesta la tua gamba di legno.”
La ragazza diede un piccolo grido acuto e di colpo ogni traccia di colore le si prosciugò dal viso. Non era stata l’oscenità della proposta a colpirla. Da bambina aveva provato, a volte, il senso della vergogna, ma la cultura ne aveva cancellato fino all’ultima traccia, come un bravo chirurgo raschia via un cancro. […] Ma per quello che riguardava la gamba artificiale, era sensibile quanto un pavone con la sua coda. Nessuno l’aveva mai toccata, all’infuori di lei.6
Lo scenario che fa da sfondo alle sue storie sono paesaggi e ambienti dove è sempre vissuta e che conosce molto bene: le campagne, le colline, i boschi, i paesi e le città della Georgia. Il vecchio Sud degli States. Lei guarda, osserva, trapassa lo sguardo come una lama; il suo occhio, attento e penetrante, indaga il contesto geografico e domestico, dove vivono i suoi protagonisti, e lo fa registrando con puntigliosità di particolari, con schiettezza e freddo distacco. Ciò che ne emerge è un ritratto acuto e sferzante di quel mondo, di quella comunità a lei contemporanea.
La vita stessa di Thomas era resa tollerabile dai frutti delle virtù più ragionevoli di sua madre: la casa che teneva ben regolata, i pasti eccellenti che preparava. Ma quando la virtù le prendeva la mano, lui sentiva una crescente presenza di diavoli, che non erano funamboli mentali suoi o della vecchia signora, ma ospiti con una precisa personalità, vicini anche se non visibili, e pronti, da un momento all’altro, a lanciare un grido o a far ballare una pentola.7
Un microcosmo, “un territorio del diavolo”, popolato da personaggi estremi, bizzarri, rudi insensibili, risoluti, indocili, i cui comportamenti oscillano tra materialismo ed egoismo, tra irragionevolezza e istinto, ma che ad un tratto si trovano ad affrontare esperienze tragiche: malattie, disgrazie, guai, catastrofi, situazioni brutali e incomprensibili (donne e uomini rovinati, aggrediti, sfigurati, ingannati e irretiti) a cui dapprima gli stessi reagiscono con nervosismo e collera, ma a cui poi soccombono assistendo allo sgretolarsi della loro dubbia presunzione, delle irremovibili convinzioni e certezze, del loro ossificato, pedestre e insulso tragitto esistenziale.
Tutti i miei racconti parlano dell’azione che la grazia esercita su un personaggio poco disposto ad assecondarla, ma sono in molti a trovare questi racconti duri, disperati, brutali, ecc.8
Questo manifestarsi di situazioni radicali non sopraggiunge, dunque, con una visione angelica né, tanto meno, con un afflato mistico, bensì come un violento lampo, come uno shock: un irrompere epifanico che altro non è che la grazia di Dio, la cui irruenza ha la capacità di spaccare la loro durezza, di insinuarsi nei loro corpi, di denudare le loro anime, le nascoste fragilità, spingendoli a desistere dalla cieca rabbia, dal loro vivere ottuso, bruto e animalesco.
L’inferno si trova sicuramente nell’inconscio dove però si trova anche il desiderio di Dio.9
A quel punto i personaggi non possono far altro che svelarsi, confrontarsi con la propria coscienza e con quell’indicibile elemento prodigioso e soprannaturale di cui tuttavia non afferrano il senso, ma che li ha ammaliati colmandoli fino a mutarne il pensiero, la coscienza e il destino. Per giungere infine alla salvezza, alla redenzione. Una redenzione che non necessariamente porta a un lieto fine.
La scrittrice nel 1961 comincia il terzo romanzo, Why Do the Heathen Rage?, che rimarrà purtroppo incompiuto. Malgrado le operazioni e le continue terapie, il lupus non si arresta e si aggiungono altri mali: una grave anemia, un’infezione ai reni e un tumore. Nel 1964, ai primi di luglio, su sua richiesta, le viene impartita l’estrema unzione. Il 2 agosto entra in coma morendo il giorno dopo, a soli 39 anni.
La sua tomba si trova nel cimitero di Milledgeville, accanto a quella del padre.
Escono postumi: la raccolta di racconti Everything That Rises Must Converge (1965); la raccolta di saggi Mistery and Manners (1969); curata da Sally Fitzgerald una selezione di lettere, scritte a partire dal 1955, The Habit of Being (1979); sempre a cura di Sally Fitzgerald, la Library of America nel 1988 pubblica tutte le sue opere dal titolo Flannery O’Connor, Collected Works.
Infine, pubblicato nel 2013, A prayer Journal, con una riproduzione anastatica del manoscritto, il diario che iniziò a scrivere alla State University of Iowa, scoperto dall’amico W.A. Sessions.