È stata una zoologa di eccelsa qualità. E una vittima del regime fascista, delle leggi razziali e dello sterminio nazista, poi.
Enrica Calabresi era nata nel 1891 a Ferrara. Si era laureata in Scienze naturali a Firenze nel 1914. Nel 1924 riuscì a ottenere il diploma di abilitazione alla docenza.
Tra il 1936-1937 e il 1937-1938 ebbe la cattedra di Entomologia agraria presso la Facoltà di agraria dell’Università di Pisa. Un’impresa eccezionale per una donna, vista la feroce legislazione fascista contro le carriere accademiche femminili, che divenne impossibile quando calò la scure delle leggi razziali. Per Enrica, fu l’ennesimo dolore.
Oltre vent’anni prima, il 16 maggio 1916, era morto Giovanni Battista de Gasperi, che, nel 1913, aveva frequentato il suo stesso corso di laurea. Si erano conosciuti all’Università, si erano innamorati, avevano scambiato idee e conoscenze, si erano anche fidanzati ufficialmente. Quando Giovanni Battista fu ucciso sull’altopiano di Asiago, nella Prima guerra mondiale, Enrica partì come infermiera volontaria, e rimase al fronte sino al termine del conflitto. Intanto chiuse con gli uomini. Si occupò soltanto del nipote, Francesco, che era figlio del fratello e la cui madre era morta pochi giorni dopo il parto.
Riservatissima e all’apparenza fragile, come l’avrebbe ricordata una sua celebre allieva, l’astronoma Margherita Hack, aveva in realtà una volontà di ferro. In particolare, mal sopportava le continue ingiustizie e discriminazioni.
Nel dicembre del 1933 dovette lasciare il suo posto di assistente all’Università di Firenze e quello di collaboratrice della Treccani, per far spazio al conte Lodovico Di Caporiacco. Che non era soltanto maschio. Era un fascista della prima ora. Mentre lei non voleva prendere la tessera. Si piegò all’ultimo per salvare il lavoro. E non bastò lo stesso.
Ancora oggi, sui libri ci si affanna a ribadire che anche Di Caporiacco era un ottimo entomologo, un vero esperto di ragni. Ma in realtà è ricordato soprattutto perché, nel 1933, si trovava nel Sahara con il conte ungherese László Ede Almásy de Zsadány a caccia di pitture rupestri. E il conte László, a sua volta, è famoso perché la sua vita, romanzata, è stata raccontata prima dallo scrittore singalese Michael Ondaatje e poi nel film Il paziente inglese, del 1996. Enrica, invece, aveva tutt’altri problemi per potersi occupare della fama: dopo l’allontanamento dall’Università di Firenze e prima di essere chiamata da quella di Pisa, insegnò al Regio Istituto tecnico Galilei di Firenze, poi al liceo omonimo.
Cacciata anche da Pisa perché ebrea, il 14 dicembre 1938, si rifugiò nella scuola ebraica di via Farini, a Firenze. Fu un’esperienza unica, animata da un gruppo di professori che già nel settembre del 1938 si erano organizzati per non far perdere l’anno scolastico a una settantina di ragazzi cacciati dalle scuole del Regno e che riuscì a garantire le lezioni fino alla primavera del 1943.
Benché il pericolo fosse ormai mortale, Enrica decise di tornare a Firenze, dopo l’ultima estate passata in famiglia, a Gallo Bolognese. “Perché a Firenze c’è la mia vita”, disse per scoraggiare chi insisteva perché si salvasse e fuggisse con la famiglia in Svizzera.
Così scelse la morte.
A gennaio 1944 fu arrestata e incarcerata a Santa Verdiana per essere deportata ad Auschwitz il 30 dello stesso mese. Morì nella notte tra il 19 e il 20 gennaio, dopo essersi avvelenata con il fosfuro di zinco, un veleno topicida che portava con sé da qualche tempo e che la costrinse a due giorni di agonia. Sapeva che avrebbe sofferto, ma lo aveva deciso lei. Lasciò le sue “poche cose” alle suore del carcere.
Il 1° febbraio uscì un breve necrologio sul quotidiano la Nazione: sbagliato, per il nome e il conto degli anni. Oggi esiste una strada con il suo nome all’estrema periferia di Pisa.
Nel novembre 2019 il comune di Roma ha finalmente deciso di togliere l’intitolazione a due firmatari dell’ignobile Manifesto della razza, Arturo Donaggio (a cui spettavano addirittura una via e un largo) ed Edoardo Zavattari. Le tre targhe sono state assegnate a Calabresi (al posto di Zavattari), al medico Mario Carrara, e alla fisica Nella Mortara. Certo, la sua è una strada lontana dal centro, oltre Trigoria, nel IX Municipio. Ma era il minimo. E andava fatto.