Elma Baccanelli

New York 1918 - Roma 1969
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“Una donna che credeva
in primo luogo all’amore,
e che dava amore incessantemente.”

[C. Laurenzi]

“Mia madre non era come le altre madri: era americana”. Questo l’incipit del libro di Laura Laurenzi, La madre americana, apparso nel Febbraio del 2019, che narra la storia, poco conosciuta, di Elma Baccanelli, americana d’origine italiana, colei che, sull’onda del Piano Marshall, diresse in Italia il primo programma americano per le adozioni a distanza, il Foster Parents Plan, fondato già nel 1937, e che riuscì a strappare alla miseria, all’ignoranza, alla delinquenza 11.385 bambini italiani, molti dei quali orfani di guerra. Già nel 1944, infatti, il Foster Parents Plan aveva deciso di venire in aiuto a bambini orfani o mutilati a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, dando vita anche in Italia a programmi il cui scopo era quello di accompagnare le piccole vittime verso un reinserimento nella società.

Nel 1947, dunque, Elma Baccanelli inizia a dirigere a Roma il programma di adozioni a distanza di questi bambini, che affida a cittadini americani. Grazie ai contributi ottenuti venivano anche impiantati arti artificiali, protesi oculari e venivano effettuati, soprattutto negli USA, interventi di plastica ricostruttiva. Fu infine finanziata, a Milano, una sala operatoria appositamente attrezzata, grazie ad una donazione di Arturo Toscanini.

Elma Daisy Baccanelli nasce a New York nel 1918 da immigrati romagnoli, Diva Lucia Poggi ed Ezio Baccanelli, sbarcati negli USA nel Marzo del 1914, i quali avevano abbandonato i luoghi natali (Meldola-Forlì), dopo che, morta la loro primogenita, i genitori di lei non avevano cambiato atteggiamento nei confronti della figlia che aveva sposato un uomo contro la loro volontà. I due rimarranno per quarant’anni negli USA, soggiornando in Florida, nel New Jersey, a New York, e svolgendo vari mestieri. Nel 1918 nasce Elma Daisy a New York dove frequenta tutto il corso di studi, sempre con ottime votazioni e numerosi riconoscimenti, per approdare poi alla Columbia University, tra l’altro allieva di Giuseppe Prezzolini (1882-1982). All’università studia lingue e filologia romanze, oltre che letteratura inglese, e anche qui il curriculum è contraddistinto da invidiabili votazioni e frequenti borse di studio. Nel febbraio 1941 consegue quella che oggi chiameremmo una laurea triennale e si accinge a proseguire con un dottorato, che però interrompe per partire per l’Italia. La sua formazione risente della forza propulsiva dell’epoca: legge le opere di Mark Twain, mentre in Italia quella generazione era ancora ferma a De Amicis.

Elma, come molti figli di immigrati è profondamente inserita nella società americana, di cui condivide ideali e valori e dove stringe amicizie significative, come quella con Freda Diamond e Malù Errante, pur vivendo in casa, quotidianamente, il “mito italiano”: Elma in famiglia parla italiano, all’università studia Dante e letteratura italiana. Frequenta ambienti all’avanguardia che segnano la sua personalità: sostenitrice di ideali di libertà e democrazia, si iscrive già nel 1942, a soli ventiquattro anni, al Trade Union. Durante gli studi lavora, come era consueto (e lo è tuttora) negli USA, per esempio come insegnante di lingue in una scuola di New York, come traduttrice e come revisore al «NY Times» ed è importante ricordare anche l’attività di assistente del primo sindaco italoamericano di New York, al III^ mandato, Fiorello la Guardia, di cui manterrà vivi ricordi professionali, ma anche privati. Fiorello La Guardia sognava di chiudere la sua carriera come ambasciatore degli Stati Uniti in Italia e pare che proprio Elma, ormai a Roma, sia tra coloro che hanno informalmente il compito di sondare il terreno, come testimoniano numerosi documenti e lettere. Sempre Elma predispone i discorsi radiofonici agli italiani di La Guardia.

Nel 1944 avviene la svolta, allorché viene inviata in Italia come ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti d’America, senza rivelare, nemmeno alla madre, destinazione e scopo della sua missione coperta dal segreto militare. Elma giunge in Italia con l’OWIB (Office of War Information Branch) che poi cambiò denominazione in USIS (US Information Service), entrambe strutture ufficiali del governo USA e pertanto legate all’Ambasciata. Il suo lavoro la impegna anche come consulente per gli affari femminili, come attesta un’intervista rilasciata il 27 Luglio 1944 a Radio Roma. Nel 1947, infine, inizia a dirigere il Foster Parents Plan.

A Roma trova una città a pezzi e con ancora ben evidenti le ferite del recente conflitto, ma trova anche una società effervescente, vivace, piena di energie e decisa a rialzarsi. Erano gli anni della cosiddetta “dolce vita”, ma erano anche anni in cui registi di fama testimoniavano il valore, l’eroismo, il dolore vissuti dalla città non molto prima. Elma, dunque, non si lascia irretire dalle lusinghe dei night e dei caffè, ma nel suo lavoro per il Foster Parents Plan profonde ogni energia perché quel lavoro “sembrava fatto su misura per la sua generosità”. Per ventidue anni dirige questo programma che si concentra soprattutto sul meridione con un’unica clausola irrinunciabile: il mantenimento costante di legami con i benefattori. Elma lavora molto, e molto concretamente, refrattaria ai clamori delle cronache, che plaudivano a questo progetto, non avendo “niente a che vedere con lo stereotipo femminile degli anni Cinquanta”. Il suo impegno la occupa tutto il giorno, sovrintendendo un’équipe di ventidue persone alle quali, nonostante gli impegni famigliari, non fa mancare mai tutta la propria dedizione, intelligenza, competenza: una direttrice che ha a cuore ogni impiegata.

Elma si reca personalmente presso i bambini, percorrendo spesso centinaia e centinaia di chilometri, talvolta su strade sgangherate, con ancora fresche le ferite della guerra (le autostrade erano di là da venire). I sopralluoghi comportavano anche la consegna di beni di prima necessità alle famiglie che vivevano ancora in condizioni molto precarie e che avevano bisogno di tutto, ma soprattutto di solidarietà. Quell’infanzia rubata, però, bisognava spesso andare a scovarla e allora Elma gira campi, mercati, officine per intercettarla e stabilire un primo rapporto che poi si sarebbe evoluto nell’adozione. I minori aiutati sono stati appunto 11.385 e probabilmente moltissimi di loro sono stati contattati direttamente da Elma, nei suoi “pellegrinaggi” nel Sud: partiva all’alba, a bordo di una vecchia Ford ‘station wagon’, guidata da un fidato autista. Ma il Programma prevedeva anche una parte amministrativa, ovviamente, e allora, nell’ufficio di via Lucullo, Elma sovrintende alla corrispondenza fra assistiti e genitori adottivi, stende resoconti, redige schede individuali, fa bilanci, chiede sovvenzioni, cerca quelli che oggi chiameremmo sponsor e il cui aiuto è importantissimo. Il Programma lavorava già in rete, collaborando ad esempio con Croce Rossa e ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia). Elma è pragmatica e incisiva, poco incline alla pubblicizzazione delle attività e soprattutto allergica alla mondanità che la presenza di benefattori molto famosi quali Gary Cooper, Raymond Burr, Peter Ustinov e Harry Belafonte avrebbe potuto indurre. In famiglia parla poco del suo lavoro, ma i figli e il marito conoscono perfettamente il suo impegno e la sua fatica, una fatica non solo fisica.

A Roma conosce e sposa nel Novembre del 1947 Carlo Laurenzi, giornalista e inviato speciale della Stampa e del Corriere della Sera, dal quale ha due figli: Martino, nato negli USA nel 1950, e Laura, nata nel 1952 a Roma. Elma è una madre moderna, che anticipa i tempi, è una madre lavoratrice, è spesso fuori casa, anche per lunghi periodi, e deve quindi affidarsi alla collaborazione di altri per gestire famiglia e casa. Ma quando è presente, Elma lo è davvero. Non solo infatti riesce a creare un dialogo profondo e continuo con i due figli, ma permette loro di crescere autonomi. I ricordi dei figli sono ricordi di un’infanzia e di un’adolescenza serene e indelebili, in cui la madre svolge un ruolo importante, prezioso, irrinunciabile. È lei la vera capofamiglia, è attenta al dettaglio e abitualmente filma e fotografa i figli durante i momenti più importanti della loro vita, anticipando così un’abitudine che ai quei tempi rappresentava veramente una grande novità: “Ogni tanto mia madre montava un proiettore in salotto, chiudeva le persiane delle portefinestre […] e proiettava i nostri filmini. Filmini muti naturalmente, ma alcuni già a colori”. Elma delega la cucina a fidate collaboratrici, ma a volte prepara qualche piatto americano, così nuovo e inebriante, se si pensa alla dieta italiana di quei tempi: accanto a pane, burro e zucchero a merenda e al caffè d’orzo con i biscotti Oro Saiwa a colazione, brillano la banana split o l’ice cream soda. Ma soprattutto Elma si supera per Natale, quando fa arrivare dagli USA regali incredibili che lasciano i bambini stupefatti e felici: “Una volta […] Martino trovò sotto l’albero una jeep a pedali, di ferro, verde militare con la stella bianca identica a quella dell’esercito americano stampata sul cofano […].Lo stesso Natale io ricevetti un negozio in cartone pressato però resistente, una specie di edicola alta un metro e venti con finestra da cui mi affacciavo e vendevo ai clienti […] tutti i prezzi erano scritti in dollari”.

Ma la modernità di Elma si traduce soprattutto nelle scelte educative, per esempio nelle letture consigliate a Laura alla quale propone Il giovane Holden (“è molto bello”) o nell’approccio ai tipici problemi dell’adolescenza: Laura soffriva per il suo seno piccolo e la madre, volendola rassicurare, l’invita ad ammirare le figure femminili di alcuni quadri, per esempio la Venere di Botticelli e il ritratto della Fornarina di Raffaello. O ancora, quando scoppia il ’68: “Capì che con due figli adolescenti il fronte del no non avrebbe funzionato. Proibire, punire, reprimere non avrebbe avuto molto senso: ci trattò come se fossimo più maturi della nostra età”.

Elma è profondamente americana, si offende quando sente l’espressione “è un’americanata”, sostiene che gli USA abbiano salvato l’Europa con grandi sacrifici, segue le lotte per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam. Trova disdicevole che gli studenti italiani copino a scuola e lo teorizzino come l’unico modo per salvare la pelle, non capisce come, alle elementari, si usi ancora la penna con il pennino e l’inchiostro e non le comode stilografiche o meglio ancora le biro. E quando si tratta di scegliere la scuola superiore, fa sottoporre i figli a test attitudinali, proponendoli come un gioco. Ma soprattutto lascia che i figli vivano in pieno la loro vita, anche in casa, sdraiati sul tappeto del salotto, a leggere, a giocare, a chiacchierare. In anni in cui il salotto, in Italia, era spesso una stanza proibita, talvolta addirittura chiusa a chiave e aperta solo per le grandi occasioni: “Il salotto in casa nostra è sempre stata la stanza più usata […] Si chiama living room – diceva – living room vuol dire la stanza in cui si vive”. A casa di Elma, oltre ai cocktail che lei organizzava con cadenza regolare e che conferivano alla vita famigliare un alone internazionale, sfilano personaggi come Eugenio Montale, Alfonso Gatto, Giovanni Macchia, mentre Carlo Levi le dipinge un ritratto.

Molto importante è anche il rapporto con il marito, rapporto del quale possediamo numerose testimonianze, soprattutto grazie alle lettere dell’archivio di famiglia. Si tratta di un’unione all’inizio senz’altro profonda, coltivata e cresciuta giorno per giorno, ma che col tempo non è esente da crisi e incrinature, proprie di tutte le coppie, ma soprattutto di quelle formate da forti personalità. Elma, quando conosce Carlo, è molto giovane, innamorata dell’Italia e di quest’affascinante intellettuale, che incarna molti degli stereotipi sugli italiani: è bello, è un affabulatore inarrestabile, è ironico, affabile, ma al contempo schivo. È un antifascista che vive col mito dell’America: la scintilla scocca inevitabile, ma i loro rapporti non sono sempre stati facili: Carlo sempre in giro per il giornale, Elma occupatissima con il suo lavoro, ma desiderosa anche di condividere con il marito ogni momento. Può darsi che non sia stato tutto sempre facile, ma ai figli rimane comunque il ricordo di una coppia che davanti a loro non litigava mai: “Fra loro due, per lo meno di fronte ai figli, c’erano ben poche smancerie, e dunque anche poche recriminazioni”. Quando ancora non esistevano i cellulari, le mail e i social, quando ancora il telefono rappresentava quasi un lusso, le persone si scrivevano, anche da un continente all’altro, ed interessanti sono alcune lettere fra questi due giovani, prima fidanzati e poi sposati, quando erano lontani (per esempio Elma negli USA, Carlo in giro per l’Europa e per l’Italia, per lavoro). E colpisce in particolare l’italiano usato: forbito, caustico, preciso, incisivo quello di Carlo, tenero, spontaneo, immediato quello di Elma:

“Stamattina ho ricevuto la tua prima lettera dall’isola d’Elba. La mamma ha istruzioni di svegliarmi quando arriva tua posta, e stamattina alle 8 mi ha svegliato, sventolandomi la tua lettera sotto il naso! Che bei risvegli… ma così infrequenti! So che mi scrivi abbastanza spesso, ma se anche fosse tutti i giorni sarebbe troppo infrequente”.

Da queste come da tante altre lettere dei primi anni della loro unione emerge la figura di una donna innamorata, giovane, moderna ed indipendente, che talvolta però tradisce il dispiacere di essere spesso lontana dal marito con il quale vorrebbe condividere di più l’esistenza. “Carissima Elma – scrive Carlo da Parigi, in una lettera senza data – grazie della tua lettera, cui rispondo subito; le tue lettere mi hanno fatto molta compagnia. Una cosa che G. e M.S. hanno sempre capito, e che fa onore alla loro sensibilità, è la tua dote di scrivere lettere divertenti: divertenti ma non solo divertenti”.

La vita di Elma è piena, intensa, ricca di persone che le vogliono bene e a cui vuole bene, fra questi i suoi genitori e in particolare la madre, una donna volitiva e pragmatica, forse come Elma, rimasta sempre molto vicina alla figlia, la cui vita è stata segnata da mille sventure, ma anche da tante soddisfazioni e gioie e dal dolore di essere sopravvissuta alla figlia. Drammatiche sono infatti le testimonianze, nella sua corrispondenza, della breve e terribile malattia che porterà alla morte di Elma nel giro di pochi mesi.

Una donna perfetta, dunque? Assolutamente no, anzi, una donna dal carattere a volte anche spigoloso e duro, che sa bene quello che vuole, con un’etica prussiana del lavoro, che esige che le cose vadano come ha in mente lei, e che difficilmente torna sulle sue decisioni: una mamma che tiene sotto controllo la casa e l’ufficio con lo spirito organizzativo di un manager. Certo, in quegli anni, in Italia, soprattutto con un lavoro come il suo, Elma avrà avuto non poco da combattere per imporre la sua professionalità, ma senz’altro lo avrà fatto in modo intelligente e cordiale: all’americana. Se si annoverano gli aggettivi usati dai figli e dagli amici e parenti per definirla, prevalgono soprattutto quelli di buona, generosa, idealista, eccezionale, determinata, naturalmente elegante, molto volitiva. E una lettera del 3 Maggio 1944 di Fiorello La Guardia a Benedetto Croce suffraga ulteriormente le sue doti: “La Signorina Baccanelli, un’italo-americana, è energica e molto intelligente […]. La raccomando a lei perché non è soltanto una brava Signorina, ma perché ho tanto interesse in lei come se fosse mia propria figlia”.

Il Foster Parents Plan chiude nel Marzo 1969 ed Elma afferma che si riposerà un po’ perché si sente molto stanca: si ammala a Pasqua e muore nel Luglio di quello stesso anno. Numerosi i necrologi e le testimonianze per una morte così tragica, veloce, ingiusta. Elma è rimasta una figura indelebile nei ricordi dei suoi cari e di tutti quelli a cui lei ha voluto bene, tantissimi.

Fonti, risorse bibliografiche, siti

Laura Laurenzi, La madre americana, Milano, Solferino 2019

Laura Goria, La madre americana, il romanzo su una donna (più che speciale), in “Marie Claire”, 29 Giugno 2019

Referenze iconografiche: immagine proveniente dall'archivio di famiglia.

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Raimonda Lobina

Nata a Lambrate, Milano, nell’Ottobre del 1955, si trasferisce a 15 anni in Svizzera dove studia e lavora, laureandosi a Zurigo con una tesi di Dottorato sulla Medea di Corrado Alvaro e dove è molto attiva nell’ambito dell’immigrazione italiana. Dal 1982 vive a Cremona, città in cui ha messo al mondo un figlio, ha accudito una mamma anziana e dove insegna Lettere al Liceo Classico. Collabora da tempo con riviste e siti locali e da alcuni anni ha ripreso l’impegno nel Terzo Settore e nel mondo del volontariato, svolgendo vari incarichi e ricoprendo diverse cariche.

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