Emily Wilding Davison è stata un’attivista inglese che ha dedicato la sua vita alla conquista del diritto di voto femminile fino al martirio per la causa suffragista, caratteristica della prima ondata del femminismo.
Nacque l’11 ottobre del 1872 a Londra, in una famiglia insolita per i costumi della società vittoriana: il padre Charles Edward Davison era un cinquantenne borghese vedovo con nove figli a carico, e la madre Margaret Caisley era la sua giovane governante. Trascorse la gioventù nell’agiatezza economica familiare, differentemente dall’età adulta in cui si ritrovò in crisi finanziaria1.
Emily Davison, durante il periodo scolastico, fu una studentessa diligente, in un contesto sociale in cui le opportunità di istruzione femminile erano molto limitate. Dopo aver frequentato la Kensington Prep School, seguì le lezioni universitarie presso il Royal Holloway College e l’Università di Oxford, ma non poté ottenere una laurea dato che alle donne non era permesso2.
Successivamente, riuscì a trovare lavoro come insegnante e iniziò a dedicarsi all’attivismo civile e politico, con particolare interesse nel migliorare la condizione femminile all’interno della società. Nel 1906 si unì alla Women’s Social and Political Union (WSPU), un’organizzazione militante per il suffragio femminile fondata da Emmeline Pankhurst, e attiva dal 1903 al 19173. Davison fu profondamente colpita dal pensiero e dalla politica di Pankhurst, la quale riteneva che l’azione diretta e la militanza fossero i mezzi più efficaci per combattere il monopolio maschile da un punto di vista sociale e politico. L’obiettivo fondamentale era la conquista del diritto di voto, che avrebbe reso la donna finalmente libera ed emancipata. Per Pankhurst ogni mezzo per arrivare a questo obiettivo era lecito: non solo attraverso un’azione progressiva di pressione sui partiti politici e sul governo ma anche attraverso azioni più radicali di lotta.
L’impegno politico di Davison nella WSPU si intensificò nel 1908 e per questo ricevette l’incarico di organizzare una grande manifestazione di protesta presso Hyde Park, punto di incontro di una marcia militante di sette battaglioni di donne che partirono da sette punti diversi nella città di Londra. Nel parco si radunarono mezzo milione di persone e la manifestazione si concluse con l’acclamazione della risoluzione suffragista: “This meeting calls upon the Government to grant votes to woman without delay”4.
Le protagoniste della WSPU iniziarono così a dare vita a iniziative di grande impatto mediatico: interrompevano i comizi politici, compivano atti di vandalismo, si incatenavano ai cancelli del Parlamento, organizzavano marce e cortei, si facevano persino arrestare per poi compiere scioperi della fame.
Nel 1909 Davison abbandonò per sempre la sua occupazione lavorativa a Northumberland come insegnante per dedicarsi pienamente alla causa femminista trasferendosi a Londra.
Tra le sue azioni politiche si ricordano: la consegna al Primo Ministro della petizione per il suffragio femminile; il tentativo di irrompere nel Castello di Edimburgo dove il Cancelliere dello Scacchiere stava per tenere un discorso; il lancio delle pietre nelle finestre di una sala dove si teneva un incontro dei Liberali a White City in Manchester; gli atti di vandalismo contro le vetrine. Per questi e altri atti rivoluzionari venne più volte arrestata e condannata a mesi di prigionia5. Qui intraprese più volte lo sciopero della fame, strumento fondamentale utilizzato dalle suffragiste6 non solo per uscire dalla prigione più velocemente, ma anche come mezzo di affermazione della propria soggettività e rifiuto dei ruoli di genere imposti.
Nel 1912 Davison intensificò ulteriormente la sua attività politica e le sue azioni per la causa suffragista, ormai divenuta uno dei volti più noti del movimento, ebbe però anche momenti di profonda riflessione in cui scrisse diversi saggi7. I mesi di prigionia durante quest’anno furono particolarmente duri per Davison che rischiò più volte crolli psicologici sia perché trascorse la maggior parte del tempo da sola in prigione sia perché fu sottoposta alla tortura dell’alimentazione forzata. Qui iniziò a pensare a un gesto ancora più estremo da compiere, che potesse lasciare un segno e cambiare effettivamente la società: “one big tragedy may save many others”8. A giugno 1912 tentò il suicidio in prigione con l’obiettivo di porre fine alle continue torture e sofferenze che venivano quotidianamente compiute sulla sua persona e sulle sue compagne, ma il risultato fu una grave lesione alla testa e qualche costola rotta 9.
Uscita di prigione poco dopo l’incidente si confrontò con le colleghe suffragiste raccontando loro quello che era accaduto in prigione e affermando la sua volontà di attuare una politica ancora più radicale. Emmeline Pankhurst e sua figlia Christabel presero distanza dalle sue azioni, ritenendo che questo suo comportamento avrebbe potuto danneggiare la WSPU e gli obiettivi politici dell’organizzazione, così decisero di toglierla dal suo ruolo fondamentale di comando centrale all’interno dell’organizzazione stessa10.
Mercoledì 4 giugno del 1913, Emily Davison si recò presso la sede della WSPU e chiese due bandiere suffragiali dell’organizzazione (costituita dai tradizionali colori viola, verde e bianco); gliele diedero completamente all’oscuro di quelle che fossero le sue intenzioni in quella giornata11. Nel pomeriggio andò ad assistere al derby di galoppo di Epsom, gara molto importante in cui tra gli spettatori vi era anche il re Giorgio V. Dopo l’inizio della gara Davison oltrepassò la ringhiera entrando in pista, e con addosso la bandiera della WSPU si buttò davanti al cavallo del re: fu colpita e cadde a terra priva di sensi, morì quattro giorni dopo per una grave frattura al cranio12.
Tutt’ora non sono chiare quali fossero le intenzioni esatte di Davison, c’è chi sostiene sia stato un gesto da martire per la causa femminista e chi invece crede che la volontà dell’azione non era quella di suicidarsi, ma di attaccare la bandiera suffragista alle briglie del cavallo del re, ipotesi incentivata dal fatto che Davison aveva acquistato il biglietto di ritorno del treno.
Le compagne della WSPU la dichiararono martire secolare del movimento delle donne, che ha dedicato la sua vita per un ideale e che ha combattuto per migliorare la condizione femminile nella società13.
Il funerale ebbe luogo il 14 giugno a Londra e vi parteciparono circa cinquantamila persone, profondamente colpite dalla vicenda. Fu sepolta vicino a Longhorsley, sulla sua lapide è stato riportato lo slogan della WSPU, che riassume perfettamente l’intensa vita di Emily Davison: “fatti non parole”.
- Cfr. Lucy Fisher, Emily Wilding Davison. The martyr suffragette, Biteback Publishing, London, 2018, pp. 11-16. ^
- Cfr. https://www.biography.com/activist/emily-davison. ^
- Cfr. Lucy Fisher, Emily Wilding Davison, pp. 35-38. ^
- “Questo incontro invita il Governo a concedere senza indugio il voto alle donne”, ivi, p. 46. ^
- Cfr. ivi, pp. 49-61. ^
- La militanza suffragista fece scalpore e causò molta disapprovazione presso l’opinione pubblica tanto da definire le protagoniste della WSPU “‘suffragette”’ in una connotazione profondamente negativa, per la scelta dei metodi di lotta ritenuti assolutamente non adatti a delle signore (Cfr. Elda Guerra, Storia e cultura politica delle donne, ArchetipoLibri, Bologna, 2016, p. 15.). Questo sentimento ostile nei loro confronti crebbe con l’aumentare delle azioni delle militanti, e i sostenitori dell’antisuffragismo affermarono che questi atti rivoluzionari erano una prova dell’instabilità femminile, dichiarando che le donne tendono per predisposizione biologica all’isteria e per questo non erano adatte a ruoli di rilievo nella società, e nemmeno erano degne del diritto di voto (Cfr. Lucy Fisher, Emily Wilding Davison, p. 83). ^
- Ivi, pp. 111-112. ^
- Ivi. p. 123. ^
- Ivi, pp. 125-135. ^
- Ivi, pp. 137-138. ^
- Ivi, p. 167. ^
- Cfr. https://www.biography.com/activist/emily-davison. ^
- Cfr. Lucy Fisher, Emily Wilding Davison, pp. 205-206. ^