Squilla il telefono. È Maria, vigile urbano e braccio destro dell’assessore alle politiche sociali di Salerno. Mi avverte dello sbarco. Mi ha messo da parte due ragazze. Una ha quindici anni, l’altra sedici. Immagino già la situazione: saranno di certo più grandi e più difficili da gestire. I certificati di nascita in Africa sono fasulli, carta straccia. I migranti ci giocano sulla loro età. In genere, se non hanno compiuto i trent’anni, dichiarano di essere minorenni. Non ignorano, partendo, che i maggiorenni qui vengono sfruttati, ammassati in capannoni e trattati come animali. Per i più giovani invece potrebbe essere diverso, potrebbe esserci una speranza. All’arrivo vengono smistati in piccoli centri di accoglienza, proprio come il mio. Ne abbiamo già sei di ragazze, la più giovane ha otto anni e l’abbiamo iscritta a scuola insieme a sua sorella, che ne ha circa dodici. Alle altre invece abbiamo insegnato un po’ di italiano e siamo riuscite a trovare per loro piccoli lavori sottopagati. Tra quelli che nessun italiano farebbe.
Salgo in macchina, il viaggio è breve fino a Salerno. Quando arrivo al porto c’è la solita baraonda. Maria mi viene incontro e mi porta nel tendone, dove sono le ragazze assegnate a me. È nervosa e vuole consegnarmele senza neanche farmi firmare i documenti. Mentre parliamo, mi avverte che quelli di Save the children pretendono che le ragazze, prima di essere smistate, siano visitate da un medico. Mi dice che devo portarle via il prima possibile perché domani ci sarà l’ennesimo sbarco e non c’è tempo da perdere. Mentre prova a convincermi, una delle volontarie dell’associazione si avvicina con passo deciso. La giornata è calda, il sole scotta, e non mi va di restare un’ora al porto in attesa di una visita medica. Cerco una via di fuga. L’unica è la mia macchina, faccio un cenno alle ragazze, ce ne andiamo. I documenti li firmerò in seguito. Le sistemo sul sedile posteriore.
Sono malate, già lo so. Hanno la scabbia, forse l’epatite e sono piene di pidocchi. Siamo preparati a risolvere questo genere di problemi.
Mentre guido verso la mia comunità-alloggio, le osservo. Una delle due avrà circa ventuno anni. L’altra non ne ha più di diciassette. È bassa, robusta. Ha uno sguardo assente, folti capelli crespi tagliati all’altezza delle orecchie
Sono entrambe del Ghana. La più grande parla inglese. L’altra invece, Asaby, non parla e non mostra alcuna volontà di interazione.
È il 3 agosto, il caldo è afoso e l’odore in macchina è pungente. Apro i finestrini, sperando che l’aria porti lontano da me germi, pidocchi e qualunque altro virus possa infettarmi. Sono in piena crisi ipocondriaca.
Giunta in comunità, sistemo le ragazze nelle loro stanze e spiego loro le regole basilari. Asaby, muta, mi fissa con il suo sguardo spento. Quello sguardo è rimasto immutato nell’intero anno in cui è stata con noi. Non ha imparato una parola d’italiano, non ha legato con le altre ragazze, non ha trovato un lavoro. Io non ho potuto aiutarla.
Ho provato a mandarla da uno psicologo dell’Asl, ma dopo due sedute l’ha liquidata. Sulla cartella ha scritto: “Probabile ritardo mentale, si consiglia riabilitazione cognitiva”. Per la riabilitazione cognitiva la lista d’attesa è lunga.
Asaby trascorre le sue giornate tra il letto e il divano con un pettine incastrato tra i capelli. Qualche volta esce di casa. Ha un rifiuto per le scarpe e spesso torna scalza dalle sue passeggiate. Non ha mai creato problemi in comunità, anche gli operatori si limitano a osservare con disinteresse la sua vita che scorre. La prima volta che ho provato a farmi raccontare la sua storia, il suo viaggio verso l’Italia, attraverso disegni, gesti mi ha solo fissato con le lacrime agli occhi, si è alzata dalla sedia, di fronte alla mia scrivania, ed è andata via. Forse è da quel momento che ho iniziato a provare interesse per lei. Così ho lasciato passare qualche mese e ho chiesto alla coordinatrice della comunità di interrogarla ancora.
Con fatica, e grazie all’aiuto di una ragazza che ospitiamo, è riuscita a scoprire che Asaby dai dieci ai tredici anni ha fatto la parrucchiera in Ghana. Quando ha perso il lavoro, ha lasciato la famiglia ed è partita per la Nigeria. Ha lavorato per sei mesi come aiutante di un contadino e poi, per motivi che non ha voluto spiegare, è stata arrestata. Nel 2011, a sedici anni, ha perso entrambi i genitori in un incidente stradale. La sorella di sette anni è andata a vivere con la sorella della madre.
Alla morte dei suoi genitori Asaby è tornata per circa un mese in Ghana. Si è rifugiata nel suo paese, ma è proprio lì che ha subito i più duri maltrattamenti, forse anche abusi, fino al giorno in cui è riuscita a imbarcarsi e a raggiungere l’Italia. Ha pregato tanto durante il viaggio. Chiedeva a Dio di sopravvivere, nient’altro.
Una storia triste, come tante altre, piena di lacune.
L’ultima volta che sono stata in comunità, mentre con una pezza bagnata toglievo le macchie di sporco dal muro, Asaby mi si è avvicinata e senza dirmi una parola ha preso il mio straccio e ha iniziato a strofinarle via. Con fermezza, insieme allo straccio, si è presa le mie ossessioni. Si è presa i miei peccati, tutte le mie imperfezioni, stampate in bella vista su quel muro bianco e le ha lavate via. In quell’incontro dei nostri sguardi, in quell’effimera condivisione, per un attimo ho afferrato il senso della mia storia e della sua.
Questa voce è stata realizzata grazie alla collaborazione con Laura Lepri Scritture