Anna Ettorre

Martina Franca 1848 - 1910
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Nello studio di mio padre, a sinistra della scrivania, in evidenza in modo che si potesse sempre guardare, c’era la foto di un monsignore domenicano dal bel viso rotondo e rassicurante.
Una volta, da ragazzina, chiesi chi fosse e papà rispose: uno zio domenicano.
Non mi incuriosii più di tanto e non ci badai neanche più. Faceva parte dei ricordi, pensai.
Subito dopo la morte di mio padre, in una di quelle riunioni che vedono le famiglie piene del bisogno di parlare della persona scomparsa, riprendere tempi andati, ricordi e personaggi familiari, un intimo amico di mio padre fece un riferimento a quello zio monsignore. Chiedendogli meglio di lui seppi che non era uno zio bensì un nonno, vale a dire il mio bisnonno, vale a dire il padre di mia nonna Grazia, vale a dire la madre di mio padre…
Anna Ettorre nacque in un paese, Martina Franca, che faceva parte di un sud che non era ancora Italia.
Si lavorava per l’unità d’Italia: Mazzini, Gioberti, d’Azeglio miravano a un grande progetto, ma dubito che Anna ne fosse al corrente.
Apparteneva a una di quelle famiglie pacate, rispettose dei ruoli: un padre proprietario di un piccolo podere che curava da solo, una madre sempre vestita di nero con i capelli coperti da un fazzoletto di cotonina e due fratelli ubbidienti e rispettosi che lavoravano con il padre. Insomma, una di quelle classiche famiglie di paese in cui l’ordine era d’obbligo.
Abitava al sicuro in un basso imbiancato di calce in uno di quei labirinti di viuzze che fanno di Martina Franca, ancora oggi, un delizioso paese pugliese.
Anna aiutava la madre durante il giorno, la seguiva in chiesa tutte le sere per il rosario e si confessava e comunicava ogni domenica. Era molto bella e, nonostante l’origine paesana, aveva lineamenti delicati e occhi verdi. Silenziosa e discreta non aveva confidenza con nessuno della famiglia, anche se l’armonia severa vi regnava come in tutte quelle famiglie in cui non circolano le diverse opinioni dei componenti.
Lavoro e obbedienza.
Anna aveva l’abitudine di confessarsi da un monsignore domenicano, padre Giovanni, che la conosceva da anni e ne aveva valutato il candore. Cosa volete che confessi una ragazzina di diciassette anni, che vive appartata e non conosce niente della vita?
Le confessioni diventarono delle conversazioni.
Giovanni proveniva da una famiglia molto agiata e aristocratica del paese. Forse, come succedeva a quei tempi, non fu per vocazione che divenne religioso. Le famiglie di un certo ceto sociale tenevano molto ad avere un figlio dedito alla Chiesa, e siccome i figli spesso erano numerosi e uno poteva essere sacrificato, Giovanni diventò non un prete, ma un domenicano. Che faceva la differenza perché la scelta gli permise di dedicarsi agli studi ecclesiastici, di collezionare libri antichi e di vivere sì, la vita della chiesa, ma con una certa autonomia.
Giovanni divenne padre Giovanni e, almeno la domenica, si prestava a confessare i fedeli. Cos’era la confessione, a quei tempi per la maggior parte dei fedeli? Fornire al sacerdote le informazioni più dettagliate della tua vita, sì che un certo potere fosse riversato nella Chiesa attraverso la presunzione del peccato.
Di Anna, padre Giovanni non poteva sapere granché dato il tipo di vita che la ragazza conduceva. Fu certo colpito dall’ingenuità e dalla bellezza, che naturalmente non aveva solo intravisto attraverso le grate. Divenne più confidenziale con lei. Ne esplorò i sentimenti, i progetti di vita, le speranze. La confidenza si trasformò in tenerezza tanto che propose ad Anna, un giorno, dopo la confessione, di accompagnarlo in una delle masserie che possedeva fuori dal paese. E Anna accettò perché anche lei sentiva verso quell’uomo autorevole, un abbandono e una fiducia, che non aveva mai provato con nessuno.
Si dovrebbe dire, come il Manzoni, «E la sventurata rispose».
Ma Anna non si sentì sventurata perché con padre Giovanni visse una vera storia d’amore. Lui la protesse subito dalle chiacchiere del paese, e nonostante la vergogna e la resistenza del padre e della madre, nonostante le proteste dei fratelli, le offrì una casa confortevole nella masseria, accudita e circondata dal rispetto dei contadini (a cui padre Giovanni la impose senza possibilità di replica), e la coprì di amore e di attenzioni. Nacquero due bambini, che dovettero prendere il cognome della madre: Grazia e Giuseppe. Giuseppe diventò medico, si trasferì, si sposò, ebbe figli e visse una vita normale. È facile, in casi come questi, che i maschi si salvino da una condizione inaccettabile per la società.
Grazia invece, fu torturata, nell’infanzia e nella giovinezza, dalla vergogna di non essere figlia come le sue compagne di scuola. Il sentimento della anomalia della sua famiglia non l’abbandonò mai e accrebbe il suo essere solitaria e severa. Anche lei era molto bella, e viveva nella masseria appartata e senza voglia di mostrarsi. Finché un giorno papà Giovanni le disse che un giovane serio e onesto, Leonardo, che lavorava legno pregiato per fare mobili, gli aveva parlato e chiesto la mano di Grazia. Dopo il primo sconcerto, Grazia disse che sì, si sarebbe sposata e sarebbe stata finalmente in una posizione sociale ineccepibile. Non le importava molto conoscere Leonardo e sapere troppo di lui: voleva sposarla e lei si sarebbe sposata. Aveva venti anni ed era il 1885.
Il matrimonio fu drammatico.
Nacquero undici figli di cui tre ammalati di mente.
La maledizione che si era insinuata in quel gruppo familiare con la coraggiosa decisione di Anna di condividere la vita e l’amore con un religioso, cominciò a prendere forma nelle gravidanze di Grazia e nell’ansia per i bambini che sarebbero nati. La esasperata predisposizione al riserbo, che si conservava nelle famiglie di fronte a disgrazie così grandi, non permetteva di liberarsi dalle angosce: Attilio, Giovannino ed Egidio furono curati in casa. Annina fu la figlia predestinata ad aiutare la madre con Rosa, la balia che viveva in casa fin dalla masseria.
Padre Giovanni aveva fatto dono a Grazia e a Leonardo di un palazzotto nel centro del paese perché vivessero la loro famiglia. Man mano, però, che la famiglia aumentava e si determinavano situazioni sempre più dolorose, quella casa divenne un inferno.
Se il dolore di Grazia riguardava la sorte dei suoi figli, Leonardo cercava di accantonare quell’atmosfera e di tenersene lontano. Il pretesto del lavoro lo portava spesso a Napoli dove altri due figli maschi si erano trasferiti per gli studi di legge. Le due figlie femmine, sane e belle, si sposarono rapidamente per fuggire da quella casa andandosene addirittura lontane dal paese. Una si stabilì a Bari e l’altra a Pescara.
Quella casa fu tutta di Grazia e dei drammi che vi si consumavano. La viveva come il luogo del giusto castigo per tutto ciò che si era avvicendato nella sua famiglia.
La madre Anna rimase nella masseria finché visse padre Giovanni. Poi cercò di avvicinarsi alla figlia per aiutarla, ma Grazia non si faceva avvicinare facilmente. Viveva la sua vita come una punizione, una espiazione, anche se di colpe non sue.
D’altronde era troppo difficile aggrapparsi alla fede che la madre Anna le aveva trasmessa, quando lei stessa giudicava tanto severamente sua madre. Due donne appartenenti a un’epoca intransigente, così diversamente coraggiose e così diversamente infelici.

Fonti, risorse bibliografiche, siti

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Maria Grazia Mezzadri Cofano

Da quando è in pensione scrive di narrativa e di saggistica. È una accanita lettrice non di gialli, né di fantascienza, né di letteratura rosa. Ha pubblicato per Arpanet La nascita della bellezza, Giacinti Selvaggi e Libri&Segni, una collana che abbina i libri ai segni zodiacali. Si occupa attivamente dell’Associazione Amici del Loggione del Teatro alla Scala di Milano e quindi promuove e ascolta molta musica.

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