Anne Boleyn è nota ai più quale seconda moglie di Enrico VIII, re d’Inghilterra e signore di Irlanda, e da lui condannata al patibolo per presunte infedeltà coniugali, incesto e arti di strega. È stata rappresentata come una donna moderna, con il coraggio delle proprie idee in un mondo dominato da uomini: un’icona femminista. E se alcuni ambasciatori la descrivono quale consorte reale perfetta nei modi, frivola forse, ma intelligente, lo spagnolo Eustace Chapuys la bolla come “concubina del re”: calcolatrice e vendicativa.
Anne nasce intorno al 1501, quasi certamente nel castello di famiglia di Hever nella verde campagna del Kent, e qui trascorre l’infanzia con la sorella Mary – che diventerà l’amante di Enrico VIII e gli darà un figlio – e il diletto fratello George che da una finestra della propria prigione nella Torre vedrà salire al patibolo poche ore prima di lei. A Hever la fanciulla riceve l’educazione convenzionale per una gentildonna del suo ceto: grammatica, storia, musica, danza, ricamo, galateo, tiro con l’arco, falconeria. Il padre, Thomas Boleyn, discende da una famiglia di ricchi mercanti che hanno ingentilito il proprio nome da Bullen in Boleyn. Ma la gente per strada le urlerà “Nan Bullen, rovina famiglie, puttana!” quando saprà della vicenda di Catherine, la buona regina.
A ventidue anni Thomas Boleyn entra a corte. Qui intraprende la carriera diplomatica e diventa ambasciatore di Enrico VIII all’estero. Sarà lui a introdurre nel 1513 la dodicenne Anne quale damigella d’onore alla corte di Margherita d’Austria, e due anni dopo a quella della regina Claude di Francia: in queste “finishing schools” per giovani donne di alto rango la fanciulla raffinerà la propria educazione.
Passano sette anni e lei torna in Inghilterra, dama di compagnia della moglie del re, la spagnola Catherine d’Aragona. È promessa sposa di Lord Henry Percy, sesto conte di Northumberland: a quel tempo tale promessa equivale quasi a un matrimonio. Sono innamorati, e lui è uno splendido partito. Ma quando, nella primavera del 1526, il cardinale Wolsey la presenta al sovrano, Enrico è fulminato da quella bellezza insolita, dai suoi occhi di cerbiatta scuri come i capelli.
Il re ordina al cardinale di rispedire Lord Percy tra le nebbie del Nord, e convocare Anne nel suo studio. È sicuro di abbagliarla con la sua magnificenza, splendido nella casacca intessuta d’oro con diamanti e pietre preziose cucite sulle maniche. Le offre di diventare sua maîtresse-en-titre, amante ufficiale, come già Mary che ora aspetta un figlio da lui. Lei rifiuta, gli si inchina e, camminando a ritroso, esce dalla stanza senza che lui gliene abbia dato licenza.
Da quel momento è un susseguirsi di avvenimenti che cambieranno la storia d’Inghilterra: Enrico è ossessionato da quella giovane donna. Le manda doni, splendidi gioielli – alcuni forse appartengono a Catherine – che lei respinge; le scrive lettere appassionate ornate da cuoricini trafitti, alle quali lei non risponde: ma intanto civetta sotto il suo naso con i bei cortigiani. E con lui, quando a corte si danza: la pavana, l’allemanda, la gagliarda, la volta, una novità arrivata dalla Francia – un ballo a coppie chiuse, cavaliere e dama dirimpetto.
Enrico scalpita, non dorme più. Gli è chiaro: se la vuole, dovrà sposarla. Ma prima dovrà liberarsi della moglie. Ricorrere a Roma, ottenere un annullamento. Alla proposta, l’intransigente Catherine risponde con sdegno. Intanto Papa Clemente VII è prigioniero dell’imperatore Carlo V, nipote di Catherine. Il cardinale cade in disgrazia. Lo arrestano. Lungo il viaggio verso la Torre si avvelenerà, sottraendo così al sovrano la soddisfazione di farlo decapitare.
È il 1527, e Anne comincia a trovare gradevole il corteggiamento del re – il bel Percy è al Nord, ormai sposato con un’altra. Passa qualche anno, lei comincia a dar segni di cedimento. Va a caccia con il re, compare al suo fianco in cerimonie ufficiali, i due diventano inseparabili. Per ottenere un ripudio, un annullamento, un divorzio lui consulta i vescovi d’Inghilterra, i “dottori di divinità” di mezza Europa, manda minacce al papa: non ottiene nulla. Cinque anni dopo lei finalmente gli si concede, e nel gennaio del 1533, poiché è incinta, i due si sposano: è l’alba, gelido il mattino, segreta la cerimonia, il palazzo di Whitehall il luogo, pochi i testimoni. Da questo momento Enrico è bigamo.
Bigamo, ma raggiante. Da lei avrà, ne è certo, un figlio maschio, l’erede tanto invocato. Catherine è allontanata dalla corte, esiliata in dimore remote e fatiscenti, le si impedisce perfino di vedere la figlia Mary – Bloody Mary, in futuro, Maria la sanguinaria. Fervente cattolica come la madre, salita al trono farà strage di non cattolici, inviandoli al rogo.
Consapevole che non otterrà nulla da Roma, e dovendo rendere ufficiale il suo matrimonio perché il nascituro abbia diritto al trono, Enrico tasta il terreno per riuscire a proclamarsi “protettore e capo della Chiesa d’Inghilterra, per quanto lo permette la legge di Cristo.” Il papa lo scomunica.
Nel giugno 1533, Anne è incoronata regina. Fastose cerimonie, le fontane buttano vino: il popolino, che nella quotidianità non ha molti motivi per gioire, mangia e soprattutto beve a sazietà: la sera ci saranno pochi cittadini sobri per le strade del regno.
Il 7 settembre, nel primo pomeriggio, dopo ore strazianti di doglie, nasce l’erede tanto atteso. Robusto, un bel faccino, le manine perfette, la pelle chiara e i capelli rossi del padre, l’ovale del viso della madre. Ma, ahimè, il sospirato erede è una femmina: Elizabeth. Alla morte della sorella Mary, Elizabeth sarà la regina dell’età d’oro di Marlowe, Shakespeare, Sidney, Spenser, Sir Francis Bacon. Dei tesori sottratti agli spagnoli, della conquista dei mari, delle terre chiamate Virginia. Più grande del padre che l’ha più volte ripudiata.
Il 3 novembre del 1534, con il primo “Atto di supremazia” Enrico si stacca dalla chiesa di Roma: sarà “supremo capo della Chiesa d’Inghilterra”. Anne è di nuovo in attesa, ma nell’estate abortisce.
È il 1535. Il sovrano comincia a provare interesse per l’esangue, alcuni dicono insignificante, Lady Jane Seymour, dama di compagnia di Anne. Intanto Anne è incinta, ma ancora una volta abortisce. Era un maschio. Anne capisce di essere in pericolo. Fa chiamare il suo cappellano, Matthew Parker, e gli raccomanda la piccola Elizabeth.
Il 7 gennaio 1536 Catherine muore nel desolato castello di Kimbolton: quando l’imbalsamatore le apre il cuore lo trova nero e pieno di sangue raggrumato. Si sussurra per il veleno, oppure quel cuore si è spezzato per il dolore. Il 29 gennaio dello stesso anno Anne abortisce di nuovo: un lago di sangue, un feto mal formato. Una levatrice di cui i Boleyn si fidano lo getta nel fuoco, ma fatta torturare per ordine del sovrano dichiara che esso è un frutto del diavolo. Nasce l’accusa d’incesto con il fratello George.
Intanto Enrico è sempre più infatuato di Lady Jane, la allontana dalla corte per proteggerla da indiscrezioni, le manda lettere infuocate e somme di denaro alla casa paterna di Wolf Hall. Il padre di lei, Sir John Seymour, le consiglia di rifiutare pudicamente il denaro, ma di stringere al seno le lettere di lui mentre esprime ai messaggeri tutta la sua devozione al sovrano.
Una sera di marzo Enrico fa chiamare Thomas Cromwell, che ha preso il posto del Cardinale Wolsey e gli ordina di liberarlo di Anne. Il fido Cromwell – che sarà decapitato per ordine del re quattro anni dopo – istruisce una commissione che investigherà per “tradimento e altri crimini” alcuni gentiluomini di corte al servizio del re, e di conseguenza vicini ad Anne: Sir Henry Norris, Sir Francis Weston, Sir William Brereton, Mark Smeaton il musicista, e George Boleyn, fratello di Anne.
Accuse architettate e grossolane. Tutti si dichiarano innocenti tranne Smeaton che, sotto tortura – lui non è un gentiluomo, possono torturarlo – confessa di aver avuto un rapporto sessuale con la regina, a Greenwich. Indica il giorno e l’ora – ma tutti sanno che quel giorno lei era a Richmond con la corte. I cinque saranno decapitati.
Nella notte del 2 maggio 1536 Anne è a Greenwich Palace: la arrestano. È in camicia da notte, a piedi scalzi, una dama fa appena in tempo a gettarle un mantello sulle spalle. Un breve viaggio nel buio lungo il Tamigi; la rinchiudono nella Torre, la accusano di adulterio, incesto, alto tradimento.
Il 15 maggio – sono trascorsi solo tre anni dal giorno della sua incoronazione – una giuria ostile, e di cui fa parte anche lo zio Thomas Howard terzo duca di Norfolk, la dichiara colpevole. Una sentenza già scritta. Come strega potrebbe essere bruciata viva, come nobildonna, invece, decapitata. La decisione è nelle mani del sovrano.
È l’alba del 19 maggio. Vestita di un mantello di ermellino sopra un abito grigio di damasco, sostenuta dal responsabile della Torre, Sir William Kingston, sale gli scalini del palco. Appare rassegnata, non protesta la propria innocenza, di certo pensando a Elizabeth. Pronuncia poche parole: “Sono qui per morire […] e mi congedo dal mondo. Pregate per me”. Le dame le levano il mantello, le raccolgono i bei capelli in una cuffia bianca, lei appoggia la testa sul ceppo, “Signore abbi pietà di me. Gesù ricevi la mia anima”. Un colpo di spada le tronca il capo, che rotola nella paglia. Il boia francese assoldato dal sovrano – prima ancora che lei sia stata condannata – lo raccoglie e lo mostra agli astanti.
Quel che resta di lei è avvolto in un drappo candido, deposto in una cesta d’olmo e portato in una delle cappelle della Torre, San Pietro in Vincoli, dove la regina forse più indecifrabile d’Inghilterra sarà sepolta. Quel mattino il sovrano andrà a caccia con la corte, il giorno dopo si fidanzerà con Lady Jane Seymour, il 30 maggio lei diventerà la sua terza moglie.