«La differenza è una messa in gioco del molteplice».
Filosofa e femminista napoletana di grande forza umana e teoretica, Angela Putino ha lasciato un’impronta indelebile in chi l’ha conosciuta e in chi, anche senza conoscerla personalmente, ha frequentato i suoi testi. Veniva da una famiglia della media borghesia napoletana: la madre, Maddalena, insegnava in una scuola elementare, mentre il padre, Saverio, lavorava in una ditta di costruzione. La sorella, Anna, oggi in pensione, ha insegnato matematica e scienze in una scuola media. Racconta che sin da piccola Angela aveva una grande padronanza della scrittura e che le piaceva molto scrivere poesie, così come disegnare e dipingere con sapienza colori e forme. Non a caso, poi, il suo amore per Klee e Velasquez. Frequentò il liceo classico Sannazzaro di Napoli e, dopo il diploma, s’iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”. Si laureò in filosofia morale discutendo una tesi dedicata al filosofo tedesco Karl Jaspers, sotto la guida di Pietro Piovani. Partecipò attivamente al Sessantotto: oltre le tante manifestazioni, aveva dato vita a una comune e, in occasione del referendum sull’aborto, aveva raccolto firme improvvisando dei banchetti per strada.
All’inizio degli anni Settanta i suoi primi incarichi all’Università di Napoli e poi all’Università di Salerno dove insegnerà fino all’ultimo giorno.
È stata una donna libera che si poneva fuori dalle regole di pensieri e azioni codificate. La sua natura inaddomesticata, inquieta, la portava a varcare i confini del linguaggio, della parola funzionale: era una ricercatrice capace di disorientare chiunque volesse riportarla a ordini e schemi già confezionati. Amava gli spazi aperti. La sua casa, così piccola all’interno, godeva di una vista straordinaria sul golfo di Napoli e, cosa abbastanza rara nel centro città, era circondata da un grande giardino abitato da piante, fiori e tanti tanti gatti. Come racconta il suo amico, drammaturgo e attore Enzo Moscato, la sua casa era la casa di tutti/e, era una piazza, un’agorà accogliente in cui ciascuno/a si sentiva a casa propria. Era il frutto di un lavoro fatto con il suo amico Riccardo Dalise. “Zelig”: Giovanna Petrelli chiamava così Angela, per la capacità che aveva di vivere gli altri. Capacità e dono di una donna la cui vista segnava il suo rapporto con il reale. Te lo ridava vivo, bello e tragico. Lo dicono i suoi scritti e – per chi la conosceva – il suo sentire: il giardiniere che la aiutava e il preside di Facoltà avevano in lei lo stesso riguardo. Questa disponibilità alle relazioni, al fare comune, unita a un’indole brillante, ironica e divertente, è stato un elemento importante anche per il modo in cui ha inteso la filosofia e ha preso parte al femminismo italiano. La bellezza – che raramente nominava – era un suo composto. Lo era anche nel furore che la prendeva di fronte all’ingiustizia. E non si è mai “risparmiata” nel dolore che investiva gli scontri più duri. Le perdite più devastanti dei giovani amici, come quella di Maurizio Calvaruso, filosofo-poeta, e di William De Michele. Erano gli anni italiani dell’AIDS. I suoi viaggi con l’amico William a New York, in Messico, in India, erano vissuti così, nel grande amore per la vita attraversato con vista acuta dalle miserie della condizione umana.
Studiosa del pensiero di Michel Foucault e di Simone Weil, Angela non si limitava a dare interpretazioni. Porgeva il loro pensiero in maniera nuova. Così è stato anche nel suo ultimo libro, dal titolo Simone Weil. Un’intima estraneità, in cui il pensare weiliano è spinto verso estreme implicazioni e gli esiti teorici sono liberi dall’essere un mero calco di ciò che Simone Weil ha scritto. È un libro che sta in rapporto a Simone Weil e che, allo stesso tempo, si spinge oltre, diverge e crea qualcosa di inedito. Accanto alla filosofa francese è posta una costellazione di figure che, nei loro ambiti specifici (arte, filosofia, poesia, matematica, psicoanalisi, letteratura, biologia, medicina), hanno riflettuto sulla potenza del “fuori”, sia nei suoi risvolti nefasti, mortiferi, che in quelli dinamicamente attivi, che inaugurano un nuovo modo di intendere il “bene” su questa terra. Da Cantor a Dumézil, da Freud a Lacan, da Spinoza a Foucault, da Duras a Blanchot, da Kristeva a Deleuze, da Virginia Woolf a Ingeborg Bachmann, Leopardi e oltre, il bersaglio per lei era riuscire a centrare la differenza che passa tra «tendenze umane che si muovono verso l’infinito, inteso come illimitato, indistinto o spostato in una virtuale potenzialità, da quelle forgiate dagli infiniti attuali, entro cui il limite si interiorizza, e che consentono di accostare, in modo nuovo, il senso dell’incarnazione». Da queste figure si vede come Angela avesse una passione per tutto ciò che la portava a toccare i limiti del pensiero e a stare nelle contraddizioni irrisolvibili sul piano razionale e dialettico, ma non su quello del senso che, come già scriveva Simone Weil, ha a che fare quel surplus muto che pure enuncia silenziosamente il suo codice. Angela ha una scrittura complessa e bella che richiede una grande attenzione da parte di chi la ascolta. Conosce la vertigine del pensiero e il suo è un metodo indiziario e sperimentante.
È stata e rimane una fine filosofa della differenza sessuale. Come lei stessa racconta nell’intervista fatta da Conni Capobianco, il suo avvicinamento al femminismo avvenne alla fine degli anni Settanta con la lettura di Speculum di Luce Irigaray e della Signora del gioco di Luisa Muraro. Il suo femminismo, dapprima teorico, si è concretizzato man mano nella capacità di sapersi relazionare ad altre senza attenuare i contrasti e le divergenze. In questo profondamente weiliana, per Angela il pensiero è un intreccio indissolubile di teoria e pratica. Con Laura Guidi, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Napoli, faceva parte del gruppo “Memoria” che si occupava di storia delle donne. La sua esperienza nel movimento femminista le aveva insegnato che è dalla miseria “simbolica” delle donne, dal loro non essere incluse e contate come parte di un tutto, che esse divengono capaci di un reale rivolto a un infinito. Negli anni Ottanta del secolo scorso prese parte al collettivo di teoria femminista “Transizione”, da cui però si distaccò ben presto insieme a Giovanna Borrello per divergenze legate alla partecipazione o meno al Convegno delle Stelline che si tenne alla Libreria delle donne di Milano. L’incontro con Lina Mangiacapre, avvenuto sul terreno del mito, fu l’occasione per la realizzazione di un lavoro comune su Donne e Guerra, che poi presentarono insieme a un convegno che si svolse a Trieste. Dopo quell’incontro scrisse per la rivista di cinema, cultura, arte «Manifesta», creata dal gruppo femminista napoletano, fondato da Lina, le “Nemesiache”. Per un certo periodo collaborò all’associazione “Lo Specchio di Alice” e alla rivista trimestrale di politica e cultura femminile ideata da Lucia Mastrodomenico «Madrigale». Dal 1986 iniziò a frequentare la comunità filosofica femminile “Diotima” sotto invito di Luisa Muraro. Curava una rubrica di filosofia per la rivista «DWF» e, sollecitata da Alessandra Bocchetti, tenne dei seminari su Simone Weil e Michel Foucault al centro culturale Virginia Woolf di Roma. Aveva anche organizzato una “scuoletta” di filosofia cui partecipavano donne che non si occupavano necessariamente di filosofia e che provenivano dagli ambienti più svariati. Negli anni Novanta organizzò un seminario dal titolo Esercizi spirituali per giovani guerriere di cui restano ancora profondi ricordi nelle donne che vi parteciparono. Nel 1998 pubblica Amiche mie isteriche, libro che suscita molte polemiche e critiche perché si pone fuori da un ordine simbolico femminile-materno. Si tratta per lei di far agire la divergenza, la perdita, la separazione, la lacerazione «per farsi pervadere da un impossibile movimento verso l’altro che si cancella come simile e assume il volto estremo dell’estraneità». Centrale la figura della donna guerriera, figura legata alla libertà femminile che fa saltare le “determinazioni naturali e familiari”. La donna guerriera – scrive Angela – usa altra misura e si muove su tracciati non ancora calpestati. Insieme ad altre donne, aveva attraversato con passione molte fasi del femminismo italiano contribuendo attivamente al profilarsi di un movimento politico femminista. Le tante relazioni tessute nel corso degli anni, non solo a Napoli, testimoniano di questa sua necessità di pensare in relazione politica ad altre, di fare del pensiero una cosa viva e in perenne divenire. In ultimo, aveva creato, insieme a Lucia Mastrodomenico, la rivista on-line «Adateoriafemminista», coinvolgendo donne e uomini di diverse generazioni.
Angela era napoletana. Il segno “della città impietosa” era il suo. Negli ultimi mesi della sua vita aveva ribadito la profonda vocazione anticammorista veicolata dalla sua famiglia, anche da un nonno che diede le dimissioni dalla Prefettura pur di non “controllare” gli antifascisti napoletani: l’ultimo articolo da lei scritto ha significativamente come tema O’sistema. Disegnava sirene ed era un’appassionata di romanzi gialli; lei stessa stava accingendosi a scriverne uno se solo non avesse incontrato, in una sera di gennaio, ciò che aveva definito il volto traverso del divenire.