«Sono ticinese, ma la mania svizzera italiana della migrazione familiare mi ha fatto nascere a Basilea dove ho frequentato le prime scuole elementari (tedesche). Nel Ticino ho poi finito le scuole dell’obbligo e le superiori (italiane), seguite da un tentativo universitario (francese) a Losanna, abortito con soddisfazione generale. Ho cominciato a lavorare come giornalista a Zurigo con la «Die Weltwoche», tanto per completare il pasticcio linguistico. Sono stata brevissimamente sposata (con il conte Annibale Biglione di Viarigi), non ho figli. Ho scritto sempre, e come noto pubblicato poco, in perenne stato di crisi, assorbita tra l’altro dalle vicissitudini del guadagna–pane: un lungo racconto nel 1943, Gli altri (Premio Schiller), che mi ha aperto le vie dell’emigrazione»[1].
La riservatezza con la quale Alice Ceresa ha protetto per tanti anni la propria ricerca dopo l’esordio della Figlia prodiga (premio Viareggio Opera prima ’67) è il riflesso di una passione intellettuale tanto forte da non avere bisogno di nient’altro per alimentarsi: una casa appollaiata sul tetto di un edificio nel quartiere romano di San Giovanni, dove ha vissuto i suoi ultimi trent’anni con la compagna Barbara, e dove ha continuato a guadagnarsi il pane con traduzioni e collaborazioni editoriali. Il silenzio e la sollecitudine di Barbara le erano indispensabili per concentrarsi sull’unica cosa che le interessava: mettere in luce la radice dell’inuguaglianza femminile. La radice, e cioè quella parte invisibile e decisiva per la pianta.
Era nata il 25 gennaio del 1923 in una famiglia patriarcale e soprattutto in un paese (la Svizzera) dove questa parola costituiva un sistema giuridico consolidato. Se ne è andata dalla casa paterna di Bellinzona a sedici anni, nel 1939, e da quel momento ha cominciato a spostarsi tra la dolce costa francese e l’intellettuale Zurigo (dove ha stretto amicizia con molti fuoriusciti italiani tra i quali Luigi Comencini, Franco Fortini, e soprattutto Ignazio Silone che nel 1950 l’avrebbe chiamata a Roma come redattrice di «Tempo presente»). Le conseguenze interiori del distacco da quella forma di famiglia e (di società) sono state il carburante di tutta la sua ricerca. Per trovare una definizione di Alice Ceresa si potrebbe dire che era l’opposto assoluto dello scrittore italiano di costume, oppure l’incarnazione letteraria di una mente sistematica. La sua si potrebbe considerare una fenomenologia poetica di alcune emozioni e affezioni di base:
«Lo sgomento di non potersi considerare un essere umano a pieno titolo è un’esperienza tremenda, che andrebbe analizzata. Non c’è accesso naturale, libero, gioioso alla vita per chi nasce donna».
Alice Ceresa ha esplorato per tutta la vita i territori inediti della vita femminile, non c’erano altri argomenti che la interessassero «e non ho mai capito se questo sia un bene o un male». Ma l’ha sempre fatto con uno sguardo critico anche nei confronti delle posizioni ideologiche correnti: la posta in gioco era troppo alta per ridurre la rivoluzione femminista al vittimismo e tanto meno alla sociologia. Il nuovo era ai suoi occhi l’unica possibilità di salvezza. Era necessario. Il carattere del secolo si era distillato in lei senza nessuna ombra. Alice ha sempre diffidato dei luoghi comuni subdoli perché, diceva, coprono di polvere le rivolte interiori.
L’esordio della Figlia prodiga nel 1967 fu accolto con molto interesse dalla società letteraria italiana. Lo spunto iniziale del libro è stata la controversa figura di Annemarie Schwarzenbach, l’affascinante miliardaria svizzera che fu una delle protagoniste del jet set internazionale tra le due guerre e che, tornata a casa, non fu accolta a braccia aperte dalla famiglia ma morì tragicamente nel 1942, a soli quarantaquattro anni. Ma quello spunto non compare nel libro: quello che colpì l’immaginazione di Alice – allora non ancora ventenne – fu la differenza di trattamento ricevuto dal figliol prodigo del Vangelo, che viene riaccolto in casa e riceve la sua eredità, mentre la sua analoga femminile dilapida nello stesso modo la propria ma ne esce distrutta.
Le reazioni che seguirono l’uscita del libro evocano un’età dell’oro della letteratura italiana piena di scrittori affermati e critici di spessore in grado di riconoscere l’originalità di un’opera come quella. Maria Corti scrisse:
«In un impianto trattatistico atemporale i personaggi depurati di ogni concretezza e modellati in un vuoto ambientale e storico si muovono al tocco di una logica formale che li rende esemplari».
Oltre a Ignazio Silone e a Goffredo Parise che lo candidò al Viareggio, il libro fu apprezzato da Vittorini, Calvino, Fortini, Luigi Comencini, da tutto il Gruppo ‘63 e soprattutto da Giorgio Manganelli:
«Scritto in una prosa scandita, quasi versetti, La figlia prodiga si distingueva per la sua perfetta mancanza di riferimenti ad alcunché di concreto. Non era il racconto di una figlia prodiga, né l’analisi psicologica, né la descrizione ma piuttosto una chiosa elaborata e capziosa su un concetto mantenuto del tutto intangibile. Alcuni, e io tra questi, lo trovarono un libro affascinante, per certo versi unico; pertanto, sicuri di non sbagliare, ci mettemmo in attesa del secondo libro. Eravamo impazienti; eravamo curiosi. Mai scrittore al mondo riuscì a frustrare una impaziente attesa in modo più meticoloso. Passarono gli anni, e ogni tanto giungeva una voce: la Ceresa lavora al secondo libro. Gli anni divennero decenni».
Nel 1972 Alice Ceresa interrompe il suo geniale Piccolo Dizionario sull’inuguaglianza femminile (il testo incompleto è uscito postumo nel 2007 per Nottetempo a cura di Tatiana Crivelli).
Un altro gioiello nascosto di Alice è La morte del padre (1978), dove si racconta una famiglia borghese alle prese con la sepoltura del suo patriarca attraverso una serie di rivelazioni intorno all’esperienza del lutto scandite da continui inciampi umoristici. È un affresco degno delle figure maciullate di Bacon: e l’intuizione che la morte non sia un distacco istantaneo dalla vita ma un processo esistenziale complesso quanto quello fisiologico non ha precedenti. Questa volta Alice accettò di pubblicare nella rivista «Nuovi argomenti», diretta da Alberto Moravia, Italo Calvino ed Enzo Siciliano nel numero 62 dell’aprile-giugno 1979 (nel marzo 2013 è in riuscita con Et al. a cura di chi scrive). In realtà Alice Ceresa ha spesso scritto e archiviato senza pubblicare. Questo ha prodotto un’opera pubblicata di tre soli titoli e una quantità notevole di incartamenti, appunti e lettere, acquisiti dopo la sua morte dall’Archivio Svizzero di Letteratura di Berna.
L’atteso secondo libro di Alice Ceresa esce solo nel 1990 con il titolo Bambine e disegna l’esperienza primaria dell’essere umano di sesso femminile osservato in una famiglia patriarcale, quella con cui Alice ha continuato a confrontarsi dentro di sé tutta la vita. In queste pagine ermetiche e vorticose non ci sono storie, perché tutte le storie per Alice si dissolvono nella coscienza che le ha vissute. Il libro si sviluppa intorno agli inizi di un essere femminile dentro un nucleo familiare perlustrato con lo stesso sguardo con cui un entomologo esamina un formicaio. Peccato che poi lo scrittore (e il lettore) si scoprano all’improvviso nella stupefacente condizione della formica. Fu Maria Corti la prima a indicare Bambine come uno dei pochi libri nuovi destinati a durare, cioè a entrare nella letteratura.
Lo stile di Alice è il risultato di una distillazione accuratissima della ricerca intorno alla soggettività. È uno stile assolutamente scritto, non c’è traccia di casualità nella sua pagina, di trascrizione di un linguaggio naturale, la sua prosa è rarefatta fino all’astrazione. Ma ciò che preserva l’opera sperimentale di Alice Ceresa dal formalismo, e cioè dalla vanità, è proprio l’ironia radicata che sottrae ogni sentimentalismo alle sue osservazioni. Non è mai un esercizio di stile, è una necessità morale. La novità della coscienza della donna reclama una nuova definizione, cioè un modo adeguato di formularla. I temi letterari e i generi sessuali, la famiglia e l’infanzia si stagliano contro un cielo metafisico nel quale l’ovvietà del mondo è completamente svanita.
Alice è stata insomma un campione della sua generazione, o meglio del suo secolo. È stata uno di quegli artisti del Novecento che ha devoluto al Futuro tutte le sue risorse, che lo ha amato senza riserve e ne ha fatto la sua fede sostanziale. La generazione che ha scardinato il concetto stesso di genere letterario, anzi lo ha ignorato. Che cosa collega tra loro i tre titoli pubblicati da Alice Ceresa? La figlia prodiga (Einaudi 1967), un poderoso exploit sperimentale rigorosamente privo di una trama, La morte del padre (1978), un racconto lancinante che alterna scavi analitici a scene quasi comiche, e Bambine (Einaudi 1990), la raffinata analisi fenomenologica di quella stessa famiglia padrocentrica tessuta di istanti e immagini che si affastellano in una corsa quasi onirica come in un quadro di Chagall? La famiglia, il modo in cui si sedimentano di generazione in generazione i valori e i significati culturali. O l’autoritarismo patriarcale, che ha segnato la vita di un’artista costretta, dal divieto del padre allo studio, a lasciare giovanissima la propria casa e conquistare il diritto di scrivere. Ma il tema è sempre uno e lo stesso, la trasmissione collettiva e personale, e cioè l’eredità che riceve ogni individuo sulla terra. Che cosa ha mancato di trasmettere quel padre? Che cosa ha generato una forma di dominio tanto distruttivo da lasciare tutti i membri della famiglia debilitati e sconfitti, compreso il padre stesso? Alice ha sempre descritto una famiglia distruttiva e devitalizzata, e oggi che la legge di un padre senza desiderio sembra aver trascinato nella sua crisi ogni possibilità di ordine e senso universale, forse il tema dell’eredità, del rapporto tra il patrimonio culturale accumulato e il bisogno di rifondarne uno più equo, è diventato un nodo cruciale che si stringe attorno ad ogni coscienza. Come trasformare il mondo senza dilapidarne la ricchezza?
NOTE
1. da un’intervista sull’uscita di Bambine, 1990.
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