Sul finire del Trecento, Bernabò Visconti e sua moglie, Beatrice Della Scala, governano Milano. Lui burbero, a volte crudele, alterna gli umori di principe illuminato a quelli di tiranno divorato dall’ombra. Lei, ago della bilancia, ha fama di donna colta, misteriosa e seducente. Sebbene, secondo le usanze dell’epoca, anche il loro fosse un matrimonio combinato, i due si legano d’immediato a filo doppio.
Dei quindici figli avuti assieme, Bernabò ne predilige una, Agnese, forse perché quella che più gli somiglia nel volto e in alcuni aspetti dell’animo. Di salute cagionevole ma di spirito guerriero, la giovane cresce tra codici miniati e romanzi del ciclo bretone, imparando presto a cavalcare e a portare alto il nome dei Visconti. In ossequio alla ragion di stato, a sedici anni è data in moglie al rampollo dei Gonzaga, Francesco, un giovinetto ancora senza lode e senza infamia. Quelle nozze, celebrate tra i fasti a dispetto dei rigori dell’inverno, servono a sancire la definitiva riconciliazione tra le due signorie, quella di Milano e quella di Mantova, dopo anni di screzi, trabocchetti e battaglie navali. Benché nata sotto i buoni auspici della ritrovata concordia tra i rispettivi casati, l’unione tra Agnese e Francesco si rivela presto un inferno. Caparbia, altera, sicura di sé, la giovane sposa arriva a Mantova e commette subito il primo dei suoi tanti errori: restare una Visconti in casa dei Gonzaga. Distante dalla mentalità della sua nuova famiglia, incapace di adattarsi ai costumi locali, non è benvista, oltretutto perché il tempo passa e lei non resta incinta, avvalorando il sospetto che sia sterile. La solitudine è ormai la sua seconda pelle, ma quando le speranze dell’evento scemano, la tanto attesa gravidanza arriva. Nel clima di contentezza generale, Francesco tira un sospiro di sollievo; lei ottiene maggiori attenzioni e l’agognato rispetto. Ma quella gioia ha durata breve, dissolvendosi drammaticamente il giorno stesso del parto, quando Agnese dà alla luce una femminuccia. La delusione per il consorte è cocente, aggravata dalla sentenza dei medici di corte, convinti che le precarie condizioni fisiche della puerpera impediscano un nuovo concepimento. Per la Visconti è una condanna senza appello: in mancanza di un erede, alla morte di Francesco, unico maschio della famiglia, la stirpe dei Gonzaga è destinata ad estinguersi. Tuttavia, a dispetto delle difficoltà di dover vivere in un ambiente ostile, Agnese si consola: nella malinconica città dei laghi, nessuno oserà torcerle un capello, sapendo che le ritorsioni del suo potentissimo padre sarebbero tremende. Lui, seppure lontano, non smette di vigilare sulla sua salute e manda seri avvertimenti al genero ogni qualvolta gli giunge voce che trascura sua figlia. Nel frattempo, con la morte di Ludovico Gonzaga, lo scettro di Capitano del Popolo di Mantova passa a Francesco, nonostante l’età ancora verde e la scarsa esperienza nell’arte di governare. Per Agnese, essere la nuova signora di Mantova, comporta qualche onere in più ma nessun privilegio.
Nel giro di pochi anni gli eventi precipitano, la sua vita si complica: in quell’Italia frammentata in signorie, staterelli, regni di re e di papi, le guerre di espansione sono all’ordine del giorno e l’alleato di oggi è spesso il nemico di domani. Degli amici, meglio non fidarsi, e ancor meno dei parenti. Succede così che il burbero Bernabò cade come un allocco in un tranello tesogli da suo nipote Gian Galeazzo, colui che mentre amministra senza particolare vanto Pavia, mira però ad appropriarsi di Milano. Catturato e imprigionato assieme a due dei suoi figli, il Visconti muore in cella pochi mesi dopo, avvelenato con una zuppa di fagioli. A salvarsi da quel disastro, l’ultimo pargolo e il suo settimogenito, Carlo, che a ventisei anni è costretto a vivere ramingo per la Penisola, in cerca di aiuti militari contro l’usurpatore. Agnese è sconvolta: amava suo padre e se ne sentiva protetta. Ora vede se stessa come un zattera abbandonata in mezzo al mare in burrasca. Tanto più che suo marito, per opportunità politica o meglio ancora per vigliaccheria, non tarda a schierarsi proprio dalla parte dell’assassino del suocero. Uno scandalo che dovrebbe far tremare le coscienze e che invece passa sotto silenzio. I nemici di Gian Galeazzo borbottano, ma fra tentennamenti e interessi di bottega, non prendono posizione: ora che quello ha spalancato le fauci, potrebbe fare un solo boccone anche di loro. Meglio aspettare di vedere come evolvono le cose. E Agnese? Sempre più isolata, non si piega alla legge del più forte e medita vendetta, finanziando invano i tentativi del fratello di mettere su un esercito di mercenari in grado di cacciare l’usurpatore da San Giovanni in Conca, il palazzo dove erano nati entrambi. Purtroppo, col passare dei mesi, la situazione diventa vieppiù pesante, ma anziché fare un passo indietro, la fierissima figlia di Bernabò continua a sfidare a viso aperto il consorte e il suo infido alleato, senza curarsi né delle minacce né delle percosse. Il suo scalpitare produce presto effetto giacché Gian Galeazzo, che la conosce bene, la teme più di quanto non tema Carlo. Sa, infatti, che qualora non riuscisse a eliminare suo cugino, potrà sempre scenderci a patti. Ma non con Agnese: lei ha una parola sola, non conosce il perdono e non si vende ad alcun prezzo. Che fare, dunque? La nobildonna va fermata. Ecco allora che il nuovo dominus di Milano sobilla suo marito affinché risolva una volta per tutte il problema. E alla fine il mediocre vassallo gli dà retta, architettando una trappola letale per Agnese, con la scusa di volerne migliorare la sicurezza personale. In occasione, infatti, della sua partenza per la Francia, il Gonzaga sostituisce le due guardie del corpo di sua moglie con il cavaliere Antonio da Scandiano. Il fatto sorprende tutti a corte, poiché sul valoroso giovanotto, peraltro di bell’aspetto, girano voci che abbia in odio Gian Galeazzo, e di conseguenza lo stesso signore di Mantova. A rendere ancora più discutibile la scelta del Capitano del Popolo è la larghezza con cui autorizza il suo sottoposto ad accompagnare la consorte in ogni dove, dalla sera alla mattina, dentro e fuori le mura cittadine. Può giocare con lei a dama o andare a cavalcare nelle campagne dei dintorni; dividere i pasti e godere assieme della buona musica. In molti storcono il naso, danno fiato alle chiacchiere. Comunque, l’amo è gettato e i pesci abboccano. Non sorprende se Agnese e Antonio, giovani, soli e uniti dagli stessi intenti, finiscono per innamorarsi. Ma fin dove si spingono? Forse non troppo lontano, considerando che hanno sempre mille occhi puntati addosso. Senza contare che, a quei tempi, la privatezza è un concetto diverso da quello attuale, e financo le camere da letto sono luoghi affollati, per lo più da valletti e cameriere. Sia quel che sia, Agnese è destinata a soccombere, in quanto sposa sempre più invisa per mancanza di un erede, e spina nel fianco a causa della sua manifesta avversione per il feroce Gian Galeazzo. Dal canto suo, Francesco è ormai deciso a liberarsene e, non appena le circostanze glielo permettono, accusa sua moglie di adulterio con lo Scandiano. Detto fatto, la fa sottoporre a processo, ma di nascosto, affinché nessuno sappia. Dapprima, i testimoni chiamati a deporre negano di aver mai sorpreso i due imputati in atteggiamenti indecenti, ma il giorno successivo, probabilmente piegati a suon di torture, cambiano versione, ripetendo con le stesse identiche parole lo stesso identico resoconto dei fatti, sciorinando dettagli sconci sui comportamenti smodati della nobildonna e del suo bel cavaliere. Consapevole che, in un modo o in un altro, la sentenza è già stata scritta, lo Scandiano non tenta neppure di difendersi e, nell’assumersi tutta la colpa, dichiara di aver abusato di Agnese senza il suo consenso. Che almeno lei si salvi. Tradotta a sua volta davanti ai giudici, la Visconti ascolta la lettura dell’atto d’imputazione senza battere ciglio, e alla domanda se essa ritiene veri i fatti, conferma soltanto con un “sì”, rifiutandosi di rispondere ad altre domande. Perplessi, i magistrati insistono affinché si discolpi, ma di fronte al suo ostinato silenzio lasciano al Gonzaga l’ultima parola sul verdetto, non prima di avergli suggerito che può esiliare Antonio e rinchiudere sua moglie in un convento. Ma no: Francesco, freddo e inflessibile, sceglie il peggio, deliberando l’impiccagione in cella per Antonio. Decide, invece, per la sua giovane sposa una fine meno infamante, facendole tagliare proprio quella testa che in dieci anni di matrimonio non è stato capace di farle abbassare. Per fortuna, il boia è un esperto uomo d’armi, in grado di eseguire la sentenza con un colpo solo, senza doverci rimettere le mani.
Succede tutto in una notte di febbraio del milletrecentonovantuno, in assoluta segretezza, nell’angolo più buio del brolo gonzaghesco, alla sola presenza di due religiosi. A quella macabra farsa il grande assente è proprio il vile Capitano del Popolo che, forse roso dai rimorsi dell’ultima ora, sbircia dalla finestra, in attesa che il martirio si compia. Non è ancora l’alba quando i corpi dei due amanti vengono infilati in una cassa di legno povero e seppelliti lì, in quello stesso pezzo d’orto, senza neanche una lapide per ricordarne almeno il nome. Affinché di loro non resti niente, neppure la memoria.